Total Pageviews

Saturday, December 17, 2011

Le assistenti sociali del Comune mi presero sotto la loro ala protettiva, quando comunque fu loro chiara l'inadeguatezza genitoriale di mio padre. Non so bene come sia sfuggito in quei giorni all'incubo di un internamento in orfanatrofio. Probabilmente ero abbastanza grande da risultare poco gradito alle suore, cui mi presentarono una volta, all'Istituto San Tarcisio lungo la strada per Velletri, o forse la retta richiesta era troppo alta per il bilancio comunale. Il terrore che mi colse quel giorno, quando compresi sulla sedia di formica nella squallida sala d'aspetto della Superiora che si stava decidendo del mio destino  oltre il vetro fumè della porta del suo ufficio... L'immaginetta agonica del Santo giovinetto riprodotto in plastica di color bianco funereo mi parve il preannuncio di ciò che sarebbe stato di me lì dentro, a giudicare delle espressioni torve dei preadolescenti che mi fissavano dalla finestra che dava sul cortile di terra battuta. Non dimenticherò mai quell' immagine e quei volti cupi di orfani e spostati che mi perseguitarono per molti mesi a venire, quando mi fu infine chiaro che i miei quindici anni e l'ordine immacolato in cui tenevo ossessivamente la nostra stanza e il nostro guardaroba avevano ormai dissuaso le care donne dal prendere ulteriori provvedimenti.
Mi iscrissero però alla Scuola Media Jusepe Garibaldi, alla seconda della sezione E. Forte della mia esperienza di Providencia, dove anche un nuovo alunno di Santiago era un nemico straniero da prendere a sassate ogni qualvolta non ci fosse un adulto nelle vicinanze, mi figurai in molte notti settembrine insonni esotiche torture europee che mi avrebbero inflitto quei misteriosi bambini italiani.
In realtà i ragazzini di Genzano erano buoni come il famoso pane del paese, altrettanto floridi e ben tirati a lucido, figli di mamma accomodanti e ben disposti ad accogliere chiunque sapesse almeno un pò giocare a calcio durante la ricreazione, ed io ero bravo e più alto e atletico della maggior parte di loro. Fui subito per loro un buon compagno, un pò silenzioso, ma accettato e ricercato. Capitai in una classe "sperimentale" sui cui banchi sedevano fianco a fianco la figlia del farmacista e il figlio del bracciante, guidata con piglio donmilanesco da un'insegnante di lettere, una giovane donna di famiglia altoborghese votata ad uno zitellaggio politico-religioso , che alla croce di Francesco esibita al collo univa uno spirito egualitario-sessantottino pieno di calore. Ero un bambino intelligente, certo non come la mia desaparecida sorella,che era stata il genio della famiglia; tuttavia il buon sangue del professore universitario mio padre non si smentiva nemmeno in me.
La buona professoressa non mancò di notarmi, benchè in maniera alquanto diversa da quella delle assistenti sociali. Per lei non ero un caso da seguire ma una persona con cui seriamente relazionarsi, cercando soprattutto di capire cosa volessi veramente. Era la prima volta che qualcuno mi trattava da giovane adulto; ero stato "il piccolo" nella mia famiglia e dopo di ciò lo stato di profugo aveva marcato automaticamente una mia condizione di minorità. Grazie a lei, invece, andare a scuola mi diede autostima, un senso di normalità e una ragione per ricominciare a vivere, vivevo per imparare, l'italiano la matematica la storia; cominciai a leggere avidamente libri, romazi, poesie, tutto quanto mi potesse aiutare a migliorare la lingua. Ricordo le opere di Pavese e di Vittorini della biblioteca di classe, la "Storia della Seconda Guerra Mondiale" di Raymond Cartier, così appassionante e così anticomunista, i canti gitani ed andalusi di Garcia Lorca in una vecchia edizione italiana ingiallita ma con il meraviglioso testo a fronte, oh quanto quanto cupamente consoni al mio profondo nascosto dolore.


Fu allora che tìo Max (ri)entrò nella mia vita. Vidi i manifesti in piazza del programma della Festa dell'Unità di quel settembre, quasi all'inizio del mio secondo anno scolastico in Italia, e quasi cascai per terra a leggere il nome del famoso gruppo musicale di cui Max era stato cofondatore negli anni della UTE, quando era stato studente di mio padre, il famoso ingegner poeta. In quegli anni avevano condiviso ideali e poesia nello scantinato dell'Università in cui avevano sede i club culturali e politici degli studenti; mio padre per il poco che posso ricostruire ero piccolo, cinque o sei anni, era stato un po' un loro padre intellettuale putativo, un poeta pubblicato, un professore militante,  uno che leggeva i suoi cantos alla Pena del Los Parras con l'accompagnamento di Violeta, un affabile mito. Frequentavano in tanti la nostra casa che era sempre piena di canzoni e di ragazzi e del cibo contadino che cucinava mia madre e del vino tinto argentino che piaceva mio padre. Anche se lui era Professore non eravamo ricchi.
Andai al concerto con un tremore nel cuore come si va a un matrimonio o a un funerale. Il mio ricordo di quella serata è confuso e molto emozionale, ero proprio sotto al palco di legno, ricordo bene solo il colore vinaccia dei loro ponchos e ben poco dei loro volti o della folla, colori e sensazioni vivide, come gli odori delle griglie della cucina; così mi sarebbe successo quando anni dopo mi sarei fatto di hashish, una stessa vaghezza selettiva del ricordo. Soffrii come un cane ad ogni nota e riuscii ad intrufolarmi nel backstage. Max mi riconobbe subito nella confusione, con le lacrime agli occhi mi attirò subito a sè, mi abbracciò, mi chiese di mio padre, di mia madre e della sorellina. Ero senza respiro ammutolito dall'emozione e mortalmente sbalordito dall'idea che avessimo abitato per più di un anno nello stesso paesino italiano senza saperlo; Max certo non vi stava molto erano sempre in giro col gruppo a far politica musica  e murales a scuotere le coscienze degli Europei affranti dal fascismo che aveva ingoiato una nazione così simile alle loro, e poi altre a loro ancora più vicine, piene di loro compatrioti emigrati.

                               

Ci venne a trovare alla pensione il giorno dopo. Mi fecero uscire e lui parlò a lungo con il suo Professore; quando rientrai quasi di soppiatto come un ladro erano in silenzio e Max gli teneva le mani.

Seppi poi che aveva preso contatto col Comune e con le Assistenti Sociali. Quando inziò la scuola, andò a parlare con la brava Professoressa.

Durante quell'anno ci mandò costantemente dei soldi e libri e quaderni e vestiti e tutto quello che mi poteva servire per la scuola, per quanto lo vedessi poco per i suoi impegni  ed infine, erano quasi le vacanze ed io stavo  sostenendo gli esami che mi avrebbero diplomato col massimo dei voti, venne a prendermi un giorno con un italiano, un ragazzo molto alto e molto grosso con una folta barba nera e un eskimo e piccoli occhi scuro ravvicinati, quasi strabici. Si chiamava Goffredo.


Avevano una piccola macchina color verde veronese pallido, una Fiat 128. Non ho mai visto nè prima nè  dopo di allora un'auto di un colore così ridicolo. Mi prese da una parte e mi parlò a lungo con dolcezza. Tu sei bravo e intelligente, mi disse, grazie a questi bravi compagni italiani ti faremo studiare, potrai farlo se prenderai sempre buoni voti e se ti prenderai cura del Professore come hai fatto finora.


Salimmo in macchina ed andammo a Roma. Non ci ero ancora mai stato, con stupore mi trovai a percorrere con loro l'Appia Antica, passammo davanti alle Terme di
Caracalla ed ebbi una fugace visione del Colosseo in fondo ad una grande via a sei corsie fiancheggiata da pini maestosi .Trovammo un parcheggio ai piedi della Scalinata dell'Ara  Coeli. Non ci potevo credere quando entrammo in Campidoglio. C'erano dorature affreschi e velluti ovunque e la Lupa di Bronzo. Era un panorama cui Goffredo si sarebbe poi abituato.

Monday, August 15, 2011

Il significato che aveva per me la casa di San Saba non può essere adeguatamente compreso se non ripercorrendo gli anni spaventosi che mi portarono a lei e che lì ho poi trascorso. La dolcezza e la malinconia che mi riempie il cuore a ricordare il dolore e lo strazio attraverso cui sono passato, le immagini i suoni e gli odori di quei momenti fulgidi nella memoria più di cento mille momenti felici, è più misteriosa  ed inesprimibile e potente di qualunque memoria di gioia. La casa di San Saba ed il quartiere nei miei ricordi vibrano di una luce di sofferenza e languore meravigliosa un eterno giorno di sole d'inverno a Roma freddo e brillante e commovente e poi un eterno crepuscolo rosso sangue. La luce del cielo italiano ha per me una qualità di gioia e di dolore fusi insieme che mi trafigge iconizzata  nella mia mente dall'atmosfera dei tramonti nel piccolo giardino di Piazza Bernini e dal senso della mia totale solitudine tra le persone che la riempivano sempre a quell'ora anche in inverno bastava non piovesse chiaccheravano giocavano a carte, si conoscevano tutti come dappertutto in Italia. Era lo spettacolo per me affascinante di una quotidiana normalità che non mi sarebbe mai più appartenuta e da cui allora ero così assolutamente escluso che vi assistevo come alle immagini di un film come dal finestrino di un treno. Pure mi riempiva di calore che ancora sulla Terra vi fosse qualcuno che potesse goderne, era una fiammella di speranza in un mondo buio come può esserlo solo per un adolescente solo. Da solo assistevo alla Messa nell'intima delicatissima Chiesa medievale e restavo solo, forse a pregare, per ore, il cuore colmo fino all'orlo di tutte le lacrime che non potevo piangere e premevano dolorosamente dietro gli occhi. Alle volte qualche vecchio monaco mi fissava più a lungo come a volermi parlare chiedere di quel sentimento che mi leggeva in faccia e  che mi affrettavo allora a portare da un'altra parte tanto lo vivevo ormai come dozzinale, trito e quasi vergognoso.


Avevamo avuto la casa grazie a Max, tìo Max, mi amigo. Prima di San Saba l'esilio era stato una serie di sistemazioni precarie di cui tuttavia era giusto essere grati a chi ce le rendeva accessibili. Mio padre non aveva mezzi non aveva forza non aveva vita rimasta dentro era un guscio vuoto d'uomo. L'ultimo suo sforzo era stato portarmi fuori dall'America Latina e credo che ritenesse di aver assolto definitivamente con ciò ai suoi doveri genitoriali nei miei riguardi. 

Per un periodo fummo alloggiati insieme ad altri rifugiati nei locali per gli ospiti della Scuola della CGIL ad Ariccia, un grande complesso adibito a sede di congressi, convegni e seminari, completamente attrezzato con mense e camere e addirittura attrezzature sportive. Oggi è difficile immaginare quello che poteva essere l'organizzazione di un grande sindacato o partito di allora, tanto più se era il Partito Comunista, e quello italiano era il più forte dell'Europa Occidentale. Compagne prosperose e affettuose. con mani grosse da contadine, cucinavano per noi , pulivano le nostre stanze e lavavano la nostra biancheria. Ero il loro cocco "Poverino", "Poro regazzino" dicevano, conoscevano la mia triste storia di orfano esule, mi riempivano di dolcetti, pizzette caramelle vestiti smessi dei loro figlioli- possedevamo appena arrivati quello che portavamo addosso o poco più- mi dedicavano tutte le soffici attenzioni femminili possibili, sebbene fossi o forse proprio perchè ero totalmente incapace di reagirvi. Non conoscevamo personalmente nessuno dei compagni di esilio che stavano lì quei giorni, ammutoliti e annichiliti come noi dallo shock.

In seguito il Sindaco di Genzano, Gino Cesaroni, comunista ex partigiano vero, deputato, un boss della politica locale da trent'anni, un uomo duro di un'altra epoca e tuttavia molto sensibile alle priorità del partito- stante la nostra situazione di totale indigenza  ci sistemò indefinitamente a pensione in un alberghetto decaduto del Centro Storico- Belvedere, si chiamava, dalla nostra camera una vista mozzafiato sull'orrido del Lago di Nemi, un panorama selvaggio popolato di ectoplasmi arcaici di indefinibili creature mitologiche. Ricordo l'angoscia di certe mattine d'inverno quando una bruma grigia saliva sinistramente dal lago e riempiva il cratere vulcanico di fantasmi o lo spettacolo indimenticabile di un arcobaleno che come una bandiera sventolò un giorno di pioggia da una costa all'altra. Era spaventoso e bellissimo insieme e la mia psiche già abbastanza sensibilizzata dall'esilio e dalla pubertà ne era sopraffatta. Non potevo parlarne con nessuno, tuttavia, non conoscevo la lingua non avevo amici o compatrioti nemmeno all'albergo. Mio padre beveva  tutto il tempo seduto nell'unica poltroncina della stanza senza guardarmi, non si lavava e non si faceva la barba per giorni, spendeva in vino locale a basso prezzo tutto il piccolo sussidio che ci dava il Comune e passavano settimane senza che mi parlasse; scendevo da solo in sala da pranzo per i pasti, uscivo da solo a girovagare per le strade sconosciute del paese italiano, lavavo e stendevo  e piegavo con cura perchè non lo potevo stirare il nostro miserrimo corredo.



 All'inizio avevo accettato il suo silenzio con la cieca fiducia dei bambini negli adulti importanti, pensando che poi si sarebbe sistemato tutto, tutto sarebbe tornato come prima, la tempesta incomprensibile che ci aveva travolto sarebbe finita. Poi cominciai ad inquietarmi, a tentare di chiedergli cosa fosse successo veramente a Santiago quando aveva già spedito me e mia madre in Argentina, affrontando l'argomento alla lontana, con la goffa delicatezza di cui i miei anni erano capaci. Mentre uscivo lentamente dal peggio della mia personale PTSD mi affiorò infine e gli posi un giorno con un coraggio che non credevo di avere, coraggio della disperazione, la domanda principe, cosa fosse accaduto a mia sorella, dov'era finita viva o morta che fosse o che...

Lui si alzò e del tutto inaspettatamente mi tirò la bottiglia che aveva davanti e poi il bicchiere e poi girò attorno al tavolo e mi raggiunse, il viso contorto in un'espressione mostruosa di cui non lo avrei creduto capace e cominciò a picchiarmi prima schiaffi a mani aperte e poi pugni nel più totale silenzio solo il suo respiro affannoso finchè ripresomi dalla sorpresa colla naturale agilità dei miei dodici anni mi lanciai fuori dalla porta giù per le scale e scappai in strada. Era la prima e fu l'ultima e l'unica volta che mio padre alzò la mano su di me, uno scoppio di emotività terribile che non si sarebbe mai più ripetuto, un risveglio brutale ma isolato dall'apatia e dall'abulia in cui sarebbe vissuto di lì in poi. Quando morì anagraficamente era in realtà già morto da anni.  

Wednesday, August 3, 2011

Nel 1994 lavoravo ormai da quasi otto anni per la Banda Reggiani, arricchita sempre da qualche figlio o nipote nuovo che si intrufolava nella gestione. Purchè firmasse assegni a vuoto era ben accetto: fui io stesso testimone di come alla festa del suo diciottesimo compleanno al Fantasie di Trastevere Ruggero dopo la torta ed i brindisi  ed i coretti fosse portato in un angolo tranquillo dal padre. Lì, sotto la vigile sorveglianza sua e del fido e viscido fattorino nano Antonucci : settant’anni e trecento milioni di assegni a vuoto sul groppone, molestatore di sguattere di cucina a centinaia ai bei tempi del CAF, un uomo una piovra, una fedeltà reciproca con lo Squalo incrollabile- Ruggero fu messo a compilare una decina di blocchetti; ora sei grande, solo la firma, grazie. Era passato come una meteora un cugino Porcacchia, defilatosi quando il padre, pilota di linea in pensione, aveva gettato nelle fauci della Bestia Marina di Ostia Antica una bella fetta dei frutti accuratamente coltivati della sua liquidazione.


 Ero stremato e nauseato fisicamente ed esistenzialmente dal lavoro e dalle droghe. Un giorno dalla mia ragazza svenni; lei chiese aiuto a tutti i presenti del palazzo senza che nessuno riuscisse a farmi riprendere i sensi. Giacevo, mi raccontarono, leggermente irrigidito e mi tremavano le gambe e le palpebre ed avevo la bocca chiusa e i denti così serrati che non riuscirono ad infilarci la congerie di preparati che tutti avevano contribuito ad inventarsi, dall’acqua e zucchero al tredici erbe a 45° di Michele. Alla fine qualcuno con un briciolo di cervello chiamò il 118  e mi portarono al Pronto Soccorso del Policlinico. Nel sangue e nelle urine mi trovarono un po’ di tutto; tuttavia il medico che mi esaminò ci passò sopra poiché nulla era nella quantità sufficiente a provocare quell’effetto. Mi mandarono a consulenza uno psichiatra che diagnosticò una crisi isterica e mi prescrisse  benzodiazepine senza potersi immaginare, probabilmente, la quantità che già ne consumavo. Il medico del Pronto Soccorso mi prese da parte prima di dimettermi e mi dissuase dal seguire la prescrizione. Mi consigliò caldamente, invece, di smettere di abusare, di nutrirmi più adeguatamente e di riposare di più. Mi disse che quando ero arrivato avevo la pressione così bassa che le vene erano collassate e mi aveva dovuto infilare un catetere alla giugulare (l’avevo notato con terrore). Avevo livelli di ammonio nel sangue che solo un epatitico e le transaminasi di un alcolista. Bere e drogarsi continuativamente porta a trascurare il cibo vero ed ero anemico come una gravida al nono mese ed avevo gli elettroliti scombinati in un modo che nemmeno un malato renale. Mi chiese che tipo di morte preferissi, se  un infarto, una cirrosi o la rabdomiolisi. Mi fece notare il pallore delle mie labbra e delle palpebre, le unghie deboli e quasi piatte, mi chiese se urinavo spesso sangue, (eh, insomma..) se mi addormentavo spesso con la sigaretta in mano(oddio, un paio di bruciature sul petto..), mi chiese se perdevo capelli ( i miei meravigliosi capelli neri, e lucidi, oddio, un po’..)
Uscii dall’Umberto I intensamente depresso ed anche un po’ paranoico,( la coca..) incerto se rientrare e prendere a pugni il dottore o prendere a schiaffi me stesso. La ragazza mi aspettava e non volle accompagnarmi a casa a nessun costo; avrei dormito da lei- lo sognava da sempre, sesso si dormire mai-  non sarei andato né a lavorare né da nessun’altra parte. Finimmo per cenare a cinese e canne, Michele con noi da quella pettegola che è sempre stato, mi sfogai un poco, ero angosciato che il mio stato fisico e psichico non mi consentisse più di lavorare, angosciato dalla consapevolezza di quanto fosse difficile uscire dal tipo di vita che facevo, sostanze in primis. Michele sentenziò che dovevo cambiare completamente ambiente se volevo davvero smettere; bella roba era il mestiere con cui mi guadagnavo il pane. Con un’alzata di spalle sbuffò “ Affitta quella bomboniera a San Saba,  non ci stai mai, ho una fila di monsignori ed onorevoli che ti ci pagheresti uno stipendio con una bellezza simile sul Piccolo Aventino, e  poi ti regalo una stanza qua finchè non starai meglio e poi Dio provvede.” Michele ci prendeva col mercato immobiliare come con quello dell’arte, era lì che consolidava i suoi miliardi, e ci alimentava d'altro canto la sua rete di insospettabili quanto misteriose conoscenze. Il suo attico alla Minerva con vista sul Pantheon, ad esempio,  fu per anni affittato a Luca di Montezemolo ad una cifra del tutto simbolica. Lo incontrai una volta alla Tazza d'Oro insieme alla meravigliosa dolcissima Edvige un giorno che Michele mi aveva chiesto di accompagnarlo a Roma per fargli firmare il rinnovo del contratto. 
La casa. Mi era costata il sangue di mio padre quella casa e poi  non mi sarei mai lontanamente immaginato che uno potesse legalmente disporre della sua casa popolare a quel modo. Michele rise fino alle lacrime alla parola legalmente. " ...legalmente...legalmente... cretino!" Era la sua interiezione preferita con noi ragazzi mai ad una signora era sempre gentile e un po' sulle spine con le donne “E poi  la tua empresa chilena  va così bene..ti ci paghi i tuoi vizi, CRETINO!"

Sunday, July 31, 2011




Quegli anni passarono come in una tempesta: il rumore di fondo della tensione che attraversava il nostro mondo e la nostre vite rendeva impossibile una qualunque forma di riflessione o introspezione su quel che facevamo e perchè. A Berlino cadeva il Muro, da almeno quattro anni la manciata di rifugiati di cui avevo ancora notizie si stava riducendo sempre di più, asciugata da un rigagnolo costante di persone che tornavano in patria. Anche Max era tornato nella sua patria d'adozione; avevo letto del concerto di Amnesty con Peter Gabriel - che avevo accuratamente evitato di ascoltare da quel giorno per non arrivare col pensiero anche solo tangenzialmente a loro. Non fu difficile rimuovere quei lontani echi della mia prima  patria. I miei giorni erano una nebbia di fatica e alterazione psichedelica o alcolica e passavano come acqua, appena scalfiti dall'amicizia, forte con Nico e certo più blanda con tutti gli altri ragazzi; ma dividevamo talmente tanto e talmente duro che come i commilitoni di un'unità di guerra era difficile non sviluppare un senso reciproco di appartenenza.

Tutto finisce però: e tra le molte cose che finirono in quegli anni ( la guerra fredda, la prima repubblica, la dittatura di Pinochet ) finì anche la mia Odissea nella Camerieria, alla comparsa nella mia vita dell'Angelo Nero, il mio nume tutelare di lì in poi, il folle, l'irresistibile, l'indomabile, l'indescrivibile Michele Minesi.




Conobbi Michele da un'amica, una biondina, il mio tipo, un'universitaria conosciuta in uno dei pub che erano, da cinque anni,  dopo il Fungo e le auto dove spesso dormivamo, la nostra seconda casa. Nico aveva attaccato discorso; io sono sempre stato troppo pigro per fare troppi primi passi con le donne, ma in genere finiva che puntavano me. Ero il più ricercato della nostra brigata, perfino più del giovanissimo biondo etereo Luca, che pure era stato la passione per niente mascherata del mai compianto maitre gay, per il quale io invece ero risultato "troppo  alto" per piacergli, nonchè forse troppo, discretamente, ma inequivocabilmente, etero. Fu, come sempre, che alla fine la ragazza si mise con me, quasi mio malgrado; ma anche se non le cercavo molto attivamente, come tutti avevo bisogno delle donne e le accoglievo volentieri nella mia vita, fatto salvo che non durava mai troppo a lungo, io non davo affidamento, non avevo prospettive e non mancavano di rimproverarmelo tutte. Per questo erano sempre meglio le più giovani, ancora nel pieno della loro precaria avventurosità postadolescenziale, non ancora indottrinate di velleità carrieristiche e facili ai sogni che un uomo più grande ed esotico come me poteva suscitare. Ci mettevano più tempo a scoprire il vuoto dietro la bella facciata hollywodiana.
Non ho mai sofferto di impotenza fisica e ho sempre nutrito sani appetiti sessuali; credo che il mio atteggiamento verso l'altro sesso fosse invece  in fondo macchiato di una subdola impotenza esistenziale, una freddezza sentimentale appena addolcita dalla mia passività. Non ho mai avuto la sensazione di un minimo controllo sulla mia vita, forse per come la Storia l'aveva mutilata tanto precocemente; questa credo la  debolezza che ha sempre caratterizzato e alla fine della fiera condannato a morte tutte le mie relazioni sentimentali.

Lei abitava in quei suoi anni universitari un appartamento che divideva con delle colleghe a Via Goito, subito dietro Termini e a breve distanza dalla Sapienza, dove studiava Economia e Commercio. Il poco tempo libero che avevo lo trascorrevo da loro; fu quando partecipai ad una festa organizzata dagli studenti che abitavano tutto il palazzo, eccetto il piano nobile, che conobbi il proprietario dell'edificio, che lì saltuariamente risiedeva, Michele. Dove stava Michele non scarseggiavano mai droga e superalcolici per cui i ragazzi non mancavano di invitare alle feste il loro padrone di casa, che debitamente non arrivava a mani vuote.
Michele all'inizio divenne semplicemente uno dei nostri fornitori; i suoi allora per me implausibili ma poi confermati  contatti con la camorra napoletana gli garantivano un surplus che divideva volentieri con  noi ragazzi, pagando il dovuto s'intende. Non lo faceva per soldi, poichè, come avrei scoperto più tardi, era ricco di suo ed amava coltivare la sua ricchezza con ben altri traffici.  Aveva saputo che ero laureato in Filosofia come lui e mi aveva preso in simpatia, che con lui si traduceva in pesanti prese in giro e stralunati motti di spirito, piccole provocazioni in lingue filosofiche, per lo più tedesco, e citazioni varie anche a sproposito, in particolare Hegel. Mi chiamava Filosofo ed immancabilmente quando mi vedeva parodiava un vecchio sketch italiano degli anni 50 gridando" vieni avanti, Filosofo!". Ma mi faceva anche sconti generosi e mi invitava spesso con i compagni del ristorante ai suoi droga parties. Era e sarebbe stato sempre un uomo profondamente ed intrinsecamente solo.


Michele Minesi era il figlio unico  di un ebreo cipriota di origine italiana e di una dama di Foggia di antica famiglia seminobile. Era basso e tozzo, scuro di occhi e di capelli, un ventre prominente per i suoi cronici eccessi di cibo ed alcool, una bocca dalle grandi labbra rosse, modi sempre rumorosi e sopra le righe. Mi ricordava le statue di Priapo che ornavano i giardini pompeiani, trasudava la stessa animalesca indifferenziata incolpevole lascivia. Da entrambi i genitori aveva ereditato una notevole ricchezza ed una debolezza esistenziale che forse aveva le sue radici nell'insanabile conflitto tra la severissima educazione cattolica che aveva ricevuto dalla madre e le sue per lui inconfessabili e per lei inaccettabili tendenze omosessuali. Sobrio, parlava correntemente il francese, l'inglese ed il tedesco e abbastanza bene lo spagnolo e traduceva greco e latino all'impronta. Era un'ottimo epigrafista ed un bibliologo e filologo naturale. Aveva frequentato la Pontificia Università Gregoriana dove si era Laureato prima in Filosofia e poi in Teologia ed aveva intrecciato amicizie con parecchi futuri Principi della Chiesa, che non disdegnavano coltivare, nell'atmosfera ecumenica post Concilio, un cattolico di origine ebrea, ricco, perdipiù. Aveva anche seguito molti insegnamenti di Storia dell'Arte e Beni Culturali della Chiesa, essendo l'arte la sua vera passione, ereditata dal padre, commerciante in ori e argenti nuovi ed antichi.






 In quegli anni era entrato nel mercato dell'arte e seguendo la sua inclinazione aveva acquistato molto Seicento Napoletano, fin'allora alquanto sottovalutato. I capolavori di Luca Giordano, Salvator Rosa, Battistello Caracciolo e Giusepe de Ribera, che lui aveva amato, mi raccontava, per la loro opulenta sensualità ed i loro sanguinosi chiaroscuri, raggiunsero in seguito quotazioni così elevate da trasformarlo da persona facoltosa in uomo decisamente ricco. Amava l'arte ma non al punto di farsi sfuggire dei buoni affari e poi era molto volubile e cambiava preferenze facilmente. L'appetito per i libri, gli argenti e gli ori antichi, tuttavia, non l'avrebbe mai potuto soddisfare. Mi mostrò un giorno, estremamente felice e fiero, un nuovo acquisto, un uovo di Fabergè, sparito poi per sempre in una delle sue cassette di sicurezza, ricettato, forse? Michi era capace di questo e ben altro, era l'essere più innocentemente amorale che si potesse immaginare. Non concepiva la violenza fisica, il sangue, gli omicidi e il razzismo ma la sua etica si fermava lì.

Per tutta la vita avrebbe trafficato con l'arte, anche di dubbiosissima provenienza, cosa che l'avrebbe anche messo nei guai con la giustizia. Aveva passato qualche mese in carcere per ricettazione, e per traffico di stupefacenti, anche: la quantità di droga che gli avevano trovato in casa alla perquisizione era tale da  non poter essere considerata per uso personale da nessun giudice al mondo, benchè in effetti lo fosse.

Saturday, July 30, 2011

Le cucine dei ristoranti sono uno dei luoghi di lavoro più pericolosi della terra. Il  servizio è una guerra che a volte viene materialmente combattuta con armi vere, padelle o piatti ma anche coltelli. Naturalmente niente a che vedere con i reality dei cuochi televisivi, tutto molto più terra terra e sporco. Mi ricordo di uno sciacquino un pregiudicato che veniva da Corviale ex disoccupato organizzato una creatura rabbiosa da cui ci tenevamo alla larga un po' tutti tirare la sua lama personale allo chef che chiedeva piatti durante un servizio particolarmente pesante; c'erano  mattine che presi dalla paranoia del down da coca i camerieri si scazzottavano per un niente. In cucina più che altro si beveva, ma a fiumi.

Ho una confusa memoria di un banchetto politico: la sala era al massimo della sua capienza , centoquaranta persone a mangiare alle spalle del bel Pierferdi Casini , ancora forlaniano ma già riaccasatosi colla giovane figlia del più potente costruttore d'Italia anche  proprietario del più importante quotidiano del Centro Sud. E' curioso come i più fervidi difensori della famiglia ne abbiano sempre almeno due e come a loro la Sacra Rota non neghi mai un annullamento, nonostante la muta e dolorosa presenza di figli piccoli.
La cucina era sotto la massima pressione: la sala era stata rimpolpata di extra ma la cucina no, era inutile, la sua dimensione ridotta rendeva impossibile lavorare contemporaneamente in un numero eccedente la brigata fissa. Nella inenarrabile confusione, poichè andammo quasi immediatamente in merda, io cercavo dappertutto la mia coca, che doveva essermi caduta dalla tasca, chiedendo ossessivamente ai colleghi  se avevano visto la mia cartata avevano visto la mia cartata hai visto la mia cartata e  intralciando il lavoro a tutti finchè Nico mi acchiappò per il collo e mi mandò in bagno a sniffare qualcosa che aveva lui. La serata finì con Casini ubriaco che concionava il pubblico, a lui perlopiù invisibile perchè il Fungo è  ricavato sulla cintura tonda di una torre per l'acqua e da una parte e dall'altra i rumorosi convitati sfumavano  al suo orizzonte curvilineo. Non gli importava, era felice; lo ero anch'io, preso a contemplarlo come un'apparizione mariana, in trance completa. Non credo fosse coca o solo coca quello che mi aveva messo in mano Nicola, ma almeno mi aveva tolto dai piedi di chi lavorava.



Le malattie professionali dei cuochi: alcolismo obesità sindrome metabolica diabete depressione da deprivazione di contatti umani ernia del disco da sollevamento di pentole padelle casse di verdure e di pesce bronchiti croniche da fumi di piastre e faringiti da choc termici apri e chiudi le celle frigo i forni tagli profondi una volta uno chef di partita egiziano perse un dito pulendo uno squalo ma glielo riattaccarono non si poteva guardare com'era venuto- era di moda mangiare squalo negli anni 90 svuotarono i mari-ustioni non si contano divorzio

Le malattie professionali dei camerieri : alcolismo abuso di droga perlopiù stimolanti depressione da cortesia coatta anche con i più lerci individui ricordo quella cacca di Paolo Bonolis il più tirchio e spocchioso personaggio mi sia mai accaduto di servire una isterica primadonna complessata che veniva da noi per lavorare coi suoi programmisti non mi ha mai guardato in faccia nemmeno quando prendevo la comanda- ridurre alle lacrime un commis di cucina un ballerino gay che era uscito dal suo antro oscuro e fetido per chiedere un autografo per la mamma. Negato con relativa scena madre da sacrilega violazione di chissà quale privacy non si fece praticamente più vedere da allora in poi ah ah chissenefrega meglio per lui i suoi piatti uscivano regolarmente conditi di sputo. (un plauso qui per contrasto a Gerry Scotti, un signore squisito affabile spiritoso  un principe della scena per la sua mole il suo sorriso la  nobile cortesia il piacere con cui gusta la vita la compagnia il cibo, il cliente ideale, un vero uomo, lo spessore morale è misurabile al meglio nei rapporti con chi ti serve). Siamo stati per un periodo meta fissa di vari cast Mediaset, una moda.
Le malattie professionali dei camerieri:  divorzio, ulcera, ansia cronica, varici, cedimento dell'arco plantare metatarsalgie dita a martello, ernie discali delle prime vertebre con intorpidimento cronico dei nervi delle mani e delle braccia tunnel carpale da asciugatura di bicchieri e posate i pollici bruciati al calor bianco dei detersivi delle lavastoviglie e dello sfregamento. Da extra arrivavo ad asciugare bicchieri per otto ore di seguito centinaia migliaia di bicchieri che uscivano e rientravano dalla cucina alla sala sempre gli stessi vesciche non si contano.

Monday, July 18, 2011

Hi everybody

Hi everybody

Questo blog è totalmente dedicato ad una storia, che stava da qualche parte e vuole essere raccontata. L'autore è una funzione, un medium un pò zoppicante, che necessita di un vigoroso editing, richiesto soprattutto nella traduzione in inglese, nell'organizzazione dei capitoli e forse anche dei paragrafi, nel titolo, e nel finale che è ancora non ben visibile all'orizzonte.
Tutti i personaggi sono realmente esistenti o esistiti; nella maggior parte dei casi sono chiamati col loro vero nome e/o cognome, a volte sono una crasi di più persone diverse o sono malamente cammuffati, o ancora la loro identità è solo accennata benchè, per chi li conosca, riconoscibile. Anche la gran parte dei fatti di questa storia sono realmente accaduti o quasi; se qualcuno s'offenderà non ha importanza per la funzione autore, poichè la storia è bensì un omaggio alle vite, gloriosamente compiute e splendidamente interpretate, di queste persone.

This blog is totally devoted to one single story, that lived somewhere by itself and is now insisting to be told. Lest it not pop up perchance on someone's OUIJA board, an author function lent itself to the task. It's fairly inadequate, though, so it requires kind editors online everywhere, that can perform through the comment section . They're to help with the english translation first of all, but also with the chapters' chronology, with the title, and with the ending, still not in view.
The story's charachters ARE ALL REALLY EXISTING OR EXISTED PERSONS, (except for the leading), someone here with his/her own name/surname, someone badly disguised, someone as a union of two or more different people's traits, someone only sketched but recognizable at least by his/her intimates. The events are also really happened for the most: though the authoral function coudn't care less if anybody felt misrepresented or takes offence. This whole project is a tribute to the perfectly rounded and wonderfully played existences of those hereafter portrayed.


Hay torrentes que coren bajo la tierra

Non ricordo con precisione che giorno fosse, fumavo molto quell’anno; ma era qualche giorno (settimana?) dopo il mio trentacinquesimo compleanno. Primavera? Fine dell’inverno?
Avevo festeggiato con Michele e qualche suo inquilino, gli universitari sfigati cui affittava le stanze del pesante palazzo ottocentesco di Via Goito tutto di sua proprietà e a cui cedeva sostanze in nome di una  specie di amicizia- ma no, mai gratis, quello no. Festa maschile, non c’era molto da fare, più che altro  ubriacarsi. Avevamo lasciato Michele che parlava da solo quasi gridando in un latino scorrettissimo digrignando irrefrenabilmente i denti, come gli capitava  sempre quando era troppo sbronzo o fatto di coca. Prima però non ci eravamo vergognati di metterci a cercare con cura, trovare e ripulire la sua scorta di stupefacenti, lui era  ricco più che abbastanza da non dispiacersene nemmeno se  se ne fosse accorto o avesse mai ricordato di averne avuta, il giorno dopo. Era abbondante, come prevedibile: io tenni per me solo l’erba, non ero più  interessato ad altra merda, ma gli altri poterono fottersi una piccola fortuna di bianca. A quei tempi costava molto più di oggi, ed era meno disponibile.

Ero solo. Figura elegante e bel viso di mestizo indio alla mia età non bastavano più alle  belle ragazze, dopo un po’ si accorgevano di volere qualcosa di più di un cameriere filosofo senza denaro, senza ambizioni, senza voglie, impicciato in traffici non confessabili e che nemmeno pagavano molto. Avevo trentacinque anni ed i primi capelli bianchi, ben disposti,  alle   tempie.  Eleganti e inutili. Ramon Novarro, giovane ed alto, de piel oscura e zigomi più larghi. Avevo un bel po’ di fumo dopo il raid del mio compleanno, e nulla da fare.

Mi rollavo uno spino davanti alla TV. Era un programma divertente, prendeva in giro i beati 70, insomma, mi ci potevo riconoscere abbastanza da riderci su come gli italiani, alla fine li avevo passati quasi tutti qui. Non c’era pericolo che si sfiorasse l’abisso di orrore vero che erano stati, i morti le botte uscire di casa la mattina e non sapere se e come ci saresti tornato, studente, giudice, operaio  poliziotto che fossi, il senso che il mondo poteva implodere e sbriciolarsi attorno a te da un momento all’altro. Era tanto più gustoso perciò ridere, veder prendere per il culo le tenere idiozie merceologiche o ideologiche che anodizzavano l’angoscia quei giorni. 

Il cantante conduttore nota icona del decennio in oggetto: si sedette al suo altrettanto iconico pianoforte e le luci in studio calarono fin quasi a buio totale.  Gorgheggiò con sentimento per una trentina di secondi e poi qualcosa accadde totalmente inaspettato. Cantava  una canzone , suoni parole che sentii senza permettermi di riconoscere, si unirono voci che sentii senza volere riconoscere. Il cuore i polmoni le vene di tutto il mio corpo bruciarono si gonfiarono, avevo il viso bagnato, entrambe le mani mi coprivano la bocca con forza perché non uscisse il lamento che mi tremolava in gola, un suono sgradevole acuto, inaccettabile. Piangevo, non mi era più successo dalla morte di mia madre, erano ventitré anni, era incredibile, uno stato d’animo irriconoscibile. Più che le parole le voci e i suoni che erano più di quanto avrei potuto sopportare io me ne ero tenuto prudentemente alla larga dai giorni tristi del dopo laurea –era stato il caro viso di Max, mi amigo Max, i capelli ed i baffi ora quasi bianchi, ma serio, come l’ultima volta che l’avevo visto quando era partito per Parigi  per sempre.

Alla fine della canzone piangevamo tutti , loro, Max, il conduttore le comparse il pubblico in studio, io. Presi a calci il televisore quasi subito e piansi. Piansi da bambino dodicenne, piansi come ancora nella neve, al  Cristo Redentore, piansi come ancora a Mendoza, davanti al corpo immoto  piccolo piccolo di mia madre. Piangevo e piangevo, in una convulsione di singhiozzi, impossibili da contenere. Dopo un po’ mi misi paura e mi venne rabbia. Mi avrebbero sentito, nelle stanze vicine, urlavo, era vergognoso. Battei un pugno contro un muro stupefatto del gesto così atipico per me, pure il dolore acuto spezzò il loop. Ma mi era rimasto dentro un gorgo di sofferenza psichica così intensa da ripercuotersi sul corpo stesso, intollerabile, avevo dolore in fondo alla gola e mi facevano male le braccia. Non sapevo che fare, era così strano quello che mi stava succedendo, inspiegabile e soprattutto non sapevo sopportarlo, non potevo proprio sopportarlo. Scartai l’idea di farmi una canna mi ero acceso una sigaretta e le mani mi tremavano così forte che mi era caduta. La destra si era gonfiata un po’.
Senza riuscire pensare a cosa stavo facendo uscii dal mio appartamento e salii due rampe al piano nobile dove stava Michele; bussai alla porta un numero ridicolo di volte ma non venne. Non c’era forse era a Velletri. Scesi al piano degli studenti, provai da Riccardo battei e battei ma niente. E cosa avrei mai detto se mi avessero aperto, cosa volevo da loro di cosa mai avevo bisogno? Non lo sapevo.
Si aprì la porta di Daniele: l’avevo svegliato col mio chiasso. Mi sorrise “Che hai?” sorpreso più che turbato. Ecco  era l’unico che mi poteva aiutare Daniele, si era tagliato i polsi qualche mese prima, ero andato a trovarlo in clinica, Daniele che voleva fare l’attore come suo padre ma non aveva abbastanza fisico, che voleva fare il fumettista ma non aveva abbastanza talento , avrebbe anche fatto l’illustratore ma non aveva abbastanza mano. Era in cura da uno psichiatra. Sto male, gli dissi semplicemente. I suoi occhi da cervo nel viso un po’ asimmetrico erano sempre così dolci e ironici, mai tristi, stranamente, ma si fecero proprio divertiti. Ero certamente uno spettacolo, viso gonfio, occhi rossi, la maglietta attaccata alla pelle dal sudore. “Un down?” mi chiese. Non ebbi la forza di spiegare, e non avrei saputo come, annuii.”Ho quel che ti serve per dormire”. Ne ero certo.
Entrò nel buio odorante di corpi della stanza che divideva con due ragazzetti del primo anno. Non c’erano, hijos de  puta, non c’era nessuno quella sera! Tornò con una scatola di Stilnox e me ne diede uno, ne volli di più; riluttante me ne allungò un altro “ Attento con queste, ti ritrovi in trance a fare il sonnambulo a Termini”
Grazie grazie grazie gli dissi mi hai salvato la vita e volevo baciargli la mano. Rise, ancora più divertito”Ma che sei matto?” L’anno seguente si sarebbe buttato ubriaco nella tromba delle scale e quella volta ci sarebbe riuscito. Daniele.

Mentre calavo rudemente nel lanuginoso sonno chimico, sul divano del salotto- tanto ripugnante mi era l’angoscia del letto, affiorò l’unico fugace insight di quella sera, una debole consapevolezza. Madre de Dios, dov’era andata la mia vita? Dov’erano tutte quelle persone, quei luoghi e quelle cose inghiottite dalla storia e dalla morte, dove  Ivàn y Emilio, dove, dove Mamacita e dove quella che aveva dato inizio a tutto, la mia santa laica sorellina bionda lucente dei suoi fervidi vent’anni  l’immaginetta di lei che mi è più cara dov’ero sparito IO?
Tutte domande che il giorno dopo benedetto Stilnox avevo dimenticato e che non mi sarei più posto per altri dieci anni.

File:Tunel del Cristo Redentor - Chilean entrance.jpg



Non furono anni brutti quei dieci anni, non come gli anni che li avevano preceduti, quelli subito  dopo l’università. In un certo senso stavo scoprendo la mia vocazione, per quanto sembri di cattivo gusto chiamarla così. Michele nel bene e nel male sempre il dispettoso deus ex machina della mia vita da adulto stava senza  volere indirizzando il mio cammino verso quello che sarebbe diventato il mio , come dire, lavoro permanente dai trentacinque in poi. Io sono una persona sempre equanime e meravigliosamente tranquilla, affascinata dallo spettacolo sempre mutevole della vita, non particolarmente pronta a giudicare gli altrui stili di vita che tanto più devìano tanto più mi fanno simpatia. Sono cresciuto in un’atmosfera che già in Cile era più che bohemienne e in più quanto oggi si chiamerebbe multiculturale- che parola- che neanche gli antropologi allora e invece oggi… E poi anche  l’esilio.
 Sarei contento di starmene  tutto il giorno a guardare la gente, le vetrine le case nelle strade della mia città non c’è luogo più divertente di Roma per chi non ha niente da fare, passeggiare nei quartieri del suo Centro zozzo e promiscuo è come sfogliare un’Enciclopedia Umana- illustrata.

Ma i dieci anni precedenti si che erano stati un incubo, e i dieci prima peggio, incommensurabilmente peggio ancora. In effetti la mia vita stava lentamente passando dall’orrore allo schifo ad un incerto ennui di quarantenne indifferente sotto sotto inquieto, niente a che fare con il tuffo brutale nell’acqua più fonda della vita che mi era toccato a dodici anni.

Dopo il centodieci e lode in Filosofia con una tesi in Filosofia del linguaggio con De Mauro  avevo accarezzato sogni di insegnamento, ma la mancanza del requisito della cittadinanza mi chiuse qualunque incarico oltre la mera assistenza volontaria. Non che non potessi chiederla, la cittadinanza, il padre di mio padre era italiano, veneto: quello che mi scoraggiò enormemente fu che avrei dovuto svolgere il servizio militare. La mia personale esperienza infantile con l’ejercito nel mio paese aveva fatto di me uno che comincia a tremargli la voce e le mani solo a parlare con qualcuno in divisa. L’idea di una caserma mi era insostenibile. Alla fine la mia carta  di rifugiato politico della questura mi permetteva quasi tutto se non uscivo dall’Italia, tranne impieghi nello Stato o i diritti elettorali di cui dopo l’ubriacante engagement nei collettivi autonomi non mi fregava ormai più niente.
Tentai per breve tempo l’insegnamento in scuole private. Una merda assoluta. I pariolini ignoranti che i genitori pieni di soldi mandavano dai preti nella speranza gli potessero ficcare un po’ di cultura nelle capocciacce o almeno allungare un titolo di studio mi stavano sulle palle ed io a loro. Nonostante le mie misere pretese economiche cambiavo un Istituto al mese. I preti erano soavemente indifferenti al razzismo che mi colpiva per il mio status di straniero e la mia pelle india e soprattutto non tolleravano fastidi. Capivo che non era la mia vocazione, ma dovevo assolutamente trovare qualcos'altro da fare, ero in bolletta tremenda senza la borsa di studio che mi aveva mantenuto fino allora.

 Nicola, un compagno del collettivo di Via dei Volsci,  impresse la prima vera svolta alla mia vita di adulto, di cui tutt’oggi gli sono agramente grato. Di tutti i ragazzi del collettivo era il più cinico, un piccoletto biondo già stempiato e nemmeno gli occhi azzurri che erano stretti come feritoie addolcivano  il viso squadrato, duro benché molto regolare, un Pompeo se fosse stato piceno, invece era ciociaro e figlio di  mezzadri. Si era mantenuto agli studi facendo il cameriere.  Non aveva smesso neppure da filosofo laureato, i suoi problemi colla giustizia gli pesavano addosso come pietre anche se era stato prosciolto dall’accusa di essere un fiancheggiatore. L’esperienza del carcere era stata un trauma per lui come per me l’esilio. Reagiva a forza di sarcasmo e disprezzo e abuso di sostanze. Aveva tutt’ora l’obbligo di soggiorno, una specie di confino, e per lui il problema di cosa fare nella vita non si poneva più da un pezzo. Era uno Chef de Rang e tale sarebbe rimasto e introdusse infine anche me alla fulgida arte ed al periglioso cimento della Camerieria.
Iniziai facendo l’extra. Un battesimo brutale ad un ambiente tanto rigido e nonnista quanto l’esercito o il carcere, brulicante di ragazzini, immigrati, ex carcerati e delinquenti in rimessa che devono “svortà” una giornata. L’ultimo arrivato, specie se giovane ed avventista, non può sperare di vedere se non cessi e bicchieri tutto il giorno, mentre i fissi fumano pigramente e si strafogano di gelato. Cominciai a rubare cogli occhi e ad acquisire colla pratica i rudimenti del mestiere, il galateo del servizio il trattamento del vino la mise en place- ma perlopiù a portare  da “cammeriere romano cinque piatti co’ na mano” ,  a servire alla francese ai banchetti, a spinare e a sporzionare davanti al cliente. Spaventoso per fatica, orari che potevano arrivare alle dieci ore per turno, totalmente in nero e alla frusta di padroni che andavano dal meschino al laido molestatore al puro schiavista a quello che frugava nell’immondizia per recuperare l’osso del prosciutto, il lavoro era pagato bene soprattutto nell’alta stagione. Mi ci mantenni galleggiando qualche mese e poi Nico mi aiutò a diventare fisso dove lavorava lui ed entrai a far parte della Grande Famiglia Reggiani dove sarei rimasto- in ultimo sporadicamente- per i successivi otto anni.

Renzo Reggiani è un gangster, il più gelido  squalo abbia mai conosciuto in vita mia, eppure  di lì in poi, da lui o da Michele- ne avrei incontrato la mia bella parte. Quando divenni suo dipendente ne aveva altri quattromila - anni ruggenti di CAF avevano allevato mandrie di animali come lui. Gestiva tutte le mense scolastiche e delle case di riposo del Comune di Roma nonché una quindicina di ristoranti che andavano dallo charme al lusso al mastodontico e che alla fine avrebbe mandato tutti alla rovina allegramente. Nel 2000 erano tutti chiusi tranne uno, fortino suo e della sua famiglia, ma proprietà dell’Ente Eur  e dato in comodato gratuito per cinquant’anni. L’Eur dispone come vuole per i suoi amici.
In realtà come imprenditore Reggiani ha sempre fatto schifo è rimasto il rappresentante della Findus di Ostia Antica che era all’inizio della sua fulgida carriera,  quand’era solo alla prima moglie e ai primi quattro figli, i magnifici RR, Riccardo Rita Raffaele e Ruggero - verso la fine dicevamo tra noi camerieri che ogni figlio Reggiani nasce con un fallimento intestato e l’abuso di coca genetico.

 A un certo punto a quel rappresentante era successo qualcosa e nel giro di due o tre  anni gestiva un impero del catering aveva una nuova moglie  vent’anni più giovane colla bocca e le tette di gomma e un ufficio accanto a quello di Pippo Calò. Esponenti dell’ala Acilia Ostia della banda della Magliana erano assidui frequentatori dei suoi locali, gratis certo e pure di manina corta  colle mance. Ricordo Urbani er Pantera che veniva col figlio indementito da un incidente colla Porsche, la testa bovina rasata e tutta la fronte un reticolo di orrende cicatrici.
Reggiani l’avrebbe pagata più tardi quando il fallimento del gruppo e la morte giudiziaria e politica dei suoi protettori lo avrebbero costretto a svariati mesi sotto falso nome pena la gambizzazione. Ma lui ha la capacità di sopravvivenza di quel coccodrillo che è sempre stato e cui da vecchio assomiglia per la carnagione stropicciata e l’occhio piatto. Ancora vive e ancora campa del giochetto degli assegni scoperti, che fece venire l’infarto dopo pochi mesi ad uno dei suoi incauti soci. Ha ancora tre figli di secondo letto cui intestare fallimenti.

Con Nico vivemmo da vicino la sua stagione più sfrenata, quella dei locali ristrutturati a suon di "miardi" e dell’alcantara come se piovesse, degli chef strappati al Grand Hotel e dell’autista negro. Lavoravamo al suo locale prediletto, il Fungo dell’Eur, dove riceveva ed accoglieva -oltre a schiere di loro portaborse affamati- politici, caporioni dell’industria o autodenominati tali e nani e ballerine. Ai suoi tavoli De Vita e i suoi omologhi delle Sette Sorelle si riunivano quasi settimanalmente a fissare i prezzi della benzina e lo stato maggiore di Publitalia proprio a quei tavoli pianificò condusse e vinse la battaglia per l’assunzione del potere del nano pelato nel 94, quando a Reggiani rimanevano ormai solo tre ristoranti da affondare, oltre al nostro: il meraviglioso Sant’Urbano sull’Appia Antica e il Fantasie di Trastevere, ricavato all’interno di un teatro del Settecento e meta fissa di giapponesi frettolosi di ingollare cena e spettacolo folcloristico in tempi da record. A quei tavoli di caldo tek rosato, Roma ed il suo Agro fino ai Colli Albani  fino al mare ai nostri piedi- abbiamo servito di tutti, dalle puttane nigeriane mezze folli e dai trans rumorosi che stazionavano nelle stradine intorno alla torre- ricordo una simpaticissima che si piazzava tutte le sere col suo camper in Viale dell'Umanesimo e si metteva alla porta come a quella di un basso napoletano, spettegolando di tutto il quartiere- ai premi Nobel, un giorno un executive della Bristol Myers portò un anziano elegante signore eravamo la loro meta per le ospitate più prestigiose; una zanzara intrepida era riuscita a salire i quattordici piani del ristorante ed ora girava attorno al cliente inconsapevole mentre prendevo la comanda; istintivamente allungai la mano e la catturai al che il funzionario che se la faceva sotto dalla voglia di vantarsi del suo compagno "Lo sai" mi chiese" chi hai appena salvato?, Jean Luc Montaigner, lo scopritore del virus dell'AIDS!" Quando lo raccontai a Nicola ne fece il tormentone delle successive settimane, quando appena spuntavo da qualche parte ero accolto dal coretto in accento siciliano "Salvatore!". Pure la mia conoscenza del francese nonchè la servilistica ammirazione inscenata per tutto
  il servizio ci fruttarono mezza piotta di mancia.

Furono anni folli, per noi come per il paese in cui vivevamo, che accumulò il terzo debito pubblico  del mondo  e partorì e allattò
 una generazione di fancazzoni imbroglioni e/o di pescecani patentati. Facevamo nove o dieci turni a settimana, vivendo praticamente nel ristorante, non perché vi fossimo veramente costretti ma per pura avidità. Reggiani ci pagava al turno, con una busta paga simbolica e tutto il resto in nero, come conveniva a noi e a lui. Ci pagava bene per la nostra presenza, per la nostra cultura, per la nostra discrezione, parlavamo le lingue e lavoravamo con abilità sia alla carta che coi banchetti. Eravamo gli Chef di una piccola brigata di ragazzi, il più vecchio aveva trent’anni ed il più giovane appena diciassette, ma tutti esperti, un paio di scuola alberghiera.
Le mance erano incredibili, arrivando a superare lo stipendio in busta, anche di più per noi Chef.
Era una situazione privilegiata: fu minacciata una volta dall’arrivo di un Maitre, un bellimbusto gay abile nelle pubbliche relazioni che si era ceduto per un periodo ad una delle segretarie del Coccodrillo ma il cui curriculum poteva vantare a strigne solo  il fallimento del noto Fontana Candida, un tempo pregiata  proprietà di suo padre, nonchè un prozio omonimo antico e famoso cardinale. Lo facemmo cacciare noi, facendo trovare a Riccardo, il figlio  Reggiani maggiore, quattro cinque belle piste preparate sul tavolo di vetro dell'ufficio del gaglioffo, mentre vi entravano con alcuni ispettori del SIAN; Reggiani capì l’antifona, Riccardo divenne il Direttore del ristorante e la sala rimase in mano a noi.
 Ci tenevamo su usando di tutto colla compresa - cocaina e anfetamine per reggere le giornate infinite, alcool e hashish quando dovevamo “spegnerci” o smussare gli angoli più acuti degli stimolanti . Sperimentavamo come college freshmen, scambiandoci sostanze e provandone di nuovissime, le prime metamfetamine sintetiche la prima MDMA. Noi due ci chiamavamo l’un l’altro maitre, e così facevano i colleghi per prenderci per il culo; ma portavamo avanti i cento posti della sala alla carta con una mano sola, senza una sbavatura.


Le droghe ci spingevano ai limiti della resistenza umana fisica e psichica, e la paranoia arrivava a dilaniare le brigate di cucina e di sala. Scoppiavano risse furibonde...