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Monday, July 18, 2011

Hi everybody

Hi everybody

Questo blog è totalmente dedicato ad una storia, che stava da qualche parte e vuole essere raccontata. L'autore è una funzione, un medium un pò zoppicante, che necessita di un vigoroso editing, richiesto soprattutto nella traduzione in inglese, nell'organizzazione dei capitoli e forse anche dei paragrafi, nel titolo, e nel finale che è ancora non ben visibile all'orizzonte.
Tutti i personaggi sono realmente esistenti o esistiti; nella maggior parte dei casi sono chiamati col loro vero nome e/o cognome, a volte sono una crasi di più persone diverse o sono malamente cammuffati, o ancora la loro identità è solo accennata benchè, per chi li conosca, riconoscibile. Anche la gran parte dei fatti di questa storia sono realmente accaduti o quasi; se qualcuno s'offenderà non ha importanza per la funzione autore, poichè la storia è bensì un omaggio alle vite, gloriosamente compiute e splendidamente interpretate, di queste persone.

This blog is totally devoted to one single story, that lived somewhere by itself and is now insisting to be told. Lest it not pop up perchance on someone's OUIJA board, an author function lent itself to the task. It's fairly inadequate, though, so it requires kind editors online everywhere, that can perform through the comment section . They're to help with the english translation first of all, but also with the chapters' chronology, with the title, and with the ending, still not in view.
The story's charachters ARE ALL REALLY EXISTING OR EXISTED PERSONS, (except for the leading), someone here with his/her own name/surname, someone badly disguised, someone as a union of two or more different people's traits, someone only sketched but recognizable at least by his/her intimates. The events are also really happened for the most: though the authoral function coudn't care less if anybody felt misrepresented or takes offence. This whole project is a tribute to the perfectly rounded and wonderfully played existences of those hereafter portrayed.


Hay torrentes que coren bajo la tierra

Non ricordo con precisione che giorno fosse, fumavo molto quell’anno; ma era qualche giorno (settimana?) dopo il mio trentacinquesimo compleanno. Primavera? Fine dell’inverno?
Avevo festeggiato con Michele e qualche suo inquilino, gli universitari sfigati cui affittava le stanze del pesante palazzo ottocentesco di Via Goito tutto di sua proprietà e a cui cedeva sostanze in nome di una  specie di amicizia- ma no, mai gratis, quello no. Festa maschile, non c’era molto da fare, più che altro  ubriacarsi. Avevamo lasciato Michele che parlava da solo quasi gridando in un latino scorrettissimo digrignando irrefrenabilmente i denti, come gli capitava  sempre quando era troppo sbronzo o fatto di coca. Prima però non ci eravamo vergognati di metterci a cercare con cura, trovare e ripulire la sua scorta di stupefacenti, lui era  ricco più che abbastanza da non dispiacersene nemmeno se  se ne fosse accorto o avesse mai ricordato di averne avuta, il giorno dopo. Era abbondante, come prevedibile: io tenni per me solo l’erba, non ero più  interessato ad altra merda, ma gli altri poterono fottersi una piccola fortuna di bianca. A quei tempi costava molto più di oggi, ed era meno disponibile.

Ero solo. Figura elegante e bel viso di mestizo indio alla mia età non bastavano più alle  belle ragazze, dopo un po’ si accorgevano di volere qualcosa di più di un cameriere filosofo senza denaro, senza ambizioni, senza voglie, impicciato in traffici non confessabili e che nemmeno pagavano molto. Avevo trentacinque anni ed i primi capelli bianchi, ben disposti,  alle   tempie.  Eleganti e inutili. Ramon Novarro, giovane ed alto, de piel oscura e zigomi più larghi. Avevo un bel po’ di fumo dopo il raid del mio compleanno, e nulla da fare.

Mi rollavo uno spino davanti alla TV. Era un programma divertente, prendeva in giro i beati 70, insomma, mi ci potevo riconoscere abbastanza da riderci su come gli italiani, alla fine li avevo passati quasi tutti qui. Non c’era pericolo che si sfiorasse l’abisso di orrore vero che erano stati, i morti le botte uscire di casa la mattina e non sapere se e come ci saresti tornato, studente, giudice, operaio  poliziotto che fossi, il senso che il mondo poteva implodere e sbriciolarsi attorno a te da un momento all’altro. Era tanto più gustoso perciò ridere, veder prendere per il culo le tenere idiozie merceologiche o ideologiche che anodizzavano l’angoscia quei giorni. 

Il cantante conduttore nota icona del decennio in oggetto: si sedette al suo altrettanto iconico pianoforte e le luci in studio calarono fin quasi a buio totale.  Gorgheggiò con sentimento per una trentina di secondi e poi qualcosa accadde totalmente inaspettato. Cantava  una canzone , suoni parole che sentii senza permettermi di riconoscere, si unirono voci che sentii senza volere riconoscere. Il cuore i polmoni le vene di tutto il mio corpo bruciarono si gonfiarono, avevo il viso bagnato, entrambe le mani mi coprivano la bocca con forza perché non uscisse il lamento che mi tremolava in gola, un suono sgradevole acuto, inaccettabile. Piangevo, non mi era più successo dalla morte di mia madre, erano ventitré anni, era incredibile, uno stato d’animo irriconoscibile. Più che le parole le voci e i suoni che erano più di quanto avrei potuto sopportare io me ne ero tenuto prudentemente alla larga dai giorni tristi del dopo laurea –era stato il caro viso di Max, mi amigo Max, i capelli ed i baffi ora quasi bianchi, ma serio, come l’ultima volta che l’avevo visto quando era partito per Parigi  per sempre.

Alla fine della canzone piangevamo tutti , loro, Max, il conduttore le comparse il pubblico in studio, io. Presi a calci il televisore quasi subito e piansi. Piansi da bambino dodicenne, piansi come ancora nella neve, al  Cristo Redentore, piansi come ancora a Mendoza, davanti al corpo immoto  piccolo piccolo di mia madre. Piangevo e piangevo, in una convulsione di singhiozzi, impossibili da contenere. Dopo un po’ mi misi paura e mi venne rabbia. Mi avrebbero sentito, nelle stanze vicine, urlavo, era vergognoso. Battei un pugno contro un muro stupefatto del gesto così atipico per me, pure il dolore acuto spezzò il loop. Ma mi era rimasto dentro un gorgo di sofferenza psichica così intensa da ripercuotersi sul corpo stesso, intollerabile, avevo dolore in fondo alla gola e mi facevano male le braccia. Non sapevo che fare, era così strano quello che mi stava succedendo, inspiegabile e soprattutto non sapevo sopportarlo, non potevo proprio sopportarlo. Scartai l’idea di farmi una canna mi ero acceso una sigaretta e le mani mi tremavano così forte che mi era caduta. La destra si era gonfiata un po’.
Senza riuscire pensare a cosa stavo facendo uscii dal mio appartamento e salii due rampe al piano nobile dove stava Michele; bussai alla porta un numero ridicolo di volte ma non venne. Non c’era forse era a Velletri. Scesi al piano degli studenti, provai da Riccardo battei e battei ma niente. E cosa avrei mai detto se mi avessero aperto, cosa volevo da loro di cosa mai avevo bisogno? Non lo sapevo.
Si aprì la porta di Daniele: l’avevo svegliato col mio chiasso. Mi sorrise “Che hai?” sorpreso più che turbato. Ecco  era l’unico che mi poteva aiutare Daniele, si era tagliato i polsi qualche mese prima, ero andato a trovarlo in clinica, Daniele che voleva fare l’attore come suo padre ma non aveva abbastanza fisico, che voleva fare il fumettista ma non aveva abbastanza talento , avrebbe anche fatto l’illustratore ma non aveva abbastanza mano. Era in cura da uno psichiatra. Sto male, gli dissi semplicemente. I suoi occhi da cervo nel viso un po’ asimmetrico erano sempre così dolci e ironici, mai tristi, stranamente, ma si fecero proprio divertiti. Ero certamente uno spettacolo, viso gonfio, occhi rossi, la maglietta attaccata alla pelle dal sudore. “Un down?” mi chiese. Non ebbi la forza di spiegare, e non avrei saputo come, annuii.”Ho quel che ti serve per dormire”. Ne ero certo.
Entrò nel buio odorante di corpi della stanza che divideva con due ragazzetti del primo anno. Non c’erano, hijos de  puta, non c’era nessuno quella sera! Tornò con una scatola di Stilnox e me ne diede uno, ne volli di più; riluttante me ne allungò un altro “ Attento con queste, ti ritrovi in trance a fare il sonnambulo a Termini”
Grazie grazie grazie gli dissi mi hai salvato la vita e volevo baciargli la mano. Rise, ancora più divertito”Ma che sei matto?” L’anno seguente si sarebbe buttato ubriaco nella tromba delle scale e quella volta ci sarebbe riuscito. Daniele.

Mentre calavo rudemente nel lanuginoso sonno chimico, sul divano del salotto- tanto ripugnante mi era l’angoscia del letto, affiorò l’unico fugace insight di quella sera, una debole consapevolezza. Madre de Dios, dov’era andata la mia vita? Dov’erano tutte quelle persone, quei luoghi e quelle cose inghiottite dalla storia e dalla morte, dove  Ivàn y Emilio, dove, dove Mamacita e dove quella che aveva dato inizio a tutto, la mia santa laica sorellina bionda lucente dei suoi fervidi vent’anni  l’immaginetta di lei che mi è più cara dov’ero sparito IO?
Tutte domande che il giorno dopo benedetto Stilnox avevo dimenticato e che non mi sarei più posto per altri dieci anni.

File:Tunel del Cristo Redentor - Chilean entrance.jpg



Non furono anni brutti quei dieci anni, non come gli anni che li avevano preceduti, quelli subito  dopo l’università. In un certo senso stavo scoprendo la mia vocazione, per quanto sembri di cattivo gusto chiamarla così. Michele nel bene e nel male sempre il dispettoso deus ex machina della mia vita da adulto stava senza  volere indirizzando il mio cammino verso quello che sarebbe diventato il mio , come dire, lavoro permanente dai trentacinque in poi. Io sono una persona sempre equanime e meravigliosamente tranquilla, affascinata dallo spettacolo sempre mutevole della vita, non particolarmente pronta a giudicare gli altrui stili di vita che tanto più devìano tanto più mi fanno simpatia. Sono cresciuto in un’atmosfera che già in Cile era più che bohemienne e in più quanto oggi si chiamerebbe multiculturale- che parola- che neanche gli antropologi allora e invece oggi… E poi anche  l’esilio.
 Sarei contento di starmene  tutto il giorno a guardare la gente, le vetrine le case nelle strade della mia città non c’è luogo più divertente di Roma per chi non ha niente da fare, passeggiare nei quartieri del suo Centro zozzo e promiscuo è come sfogliare un’Enciclopedia Umana- illustrata.

Ma i dieci anni precedenti si che erano stati un incubo, e i dieci prima peggio, incommensurabilmente peggio ancora. In effetti la mia vita stava lentamente passando dall’orrore allo schifo ad un incerto ennui di quarantenne indifferente sotto sotto inquieto, niente a che fare con il tuffo brutale nell’acqua più fonda della vita che mi era toccato a dodici anni.

Dopo il centodieci e lode in Filosofia con una tesi in Filosofia del linguaggio con De Mauro  avevo accarezzato sogni di insegnamento, ma la mancanza del requisito della cittadinanza mi chiuse qualunque incarico oltre la mera assistenza volontaria. Non che non potessi chiederla, la cittadinanza, il padre di mio padre era italiano, veneto: quello che mi scoraggiò enormemente fu che avrei dovuto svolgere il servizio militare. La mia personale esperienza infantile con l’ejercito nel mio paese aveva fatto di me uno che comincia a tremargli la voce e le mani solo a parlare con qualcuno in divisa. L’idea di una caserma mi era insostenibile. Alla fine la mia carta  di rifugiato politico della questura mi permetteva quasi tutto se non uscivo dall’Italia, tranne impieghi nello Stato o i diritti elettorali di cui dopo l’ubriacante engagement nei collettivi autonomi non mi fregava ormai più niente.
Tentai per breve tempo l’insegnamento in scuole private. Una merda assoluta. I pariolini ignoranti che i genitori pieni di soldi mandavano dai preti nella speranza gli potessero ficcare un po’ di cultura nelle capocciacce o almeno allungare un titolo di studio mi stavano sulle palle ed io a loro. Nonostante le mie misere pretese economiche cambiavo un Istituto al mese. I preti erano soavemente indifferenti al razzismo che mi colpiva per il mio status di straniero e la mia pelle india e soprattutto non tolleravano fastidi. Capivo che non era la mia vocazione, ma dovevo assolutamente trovare qualcos'altro da fare, ero in bolletta tremenda senza la borsa di studio che mi aveva mantenuto fino allora.

 Nicola, un compagno del collettivo di Via dei Volsci,  impresse la prima vera svolta alla mia vita di adulto, di cui tutt’oggi gli sono agramente grato. Di tutti i ragazzi del collettivo era il più cinico, un piccoletto biondo già stempiato e nemmeno gli occhi azzurri che erano stretti come feritoie addolcivano  il viso squadrato, duro benché molto regolare, un Pompeo se fosse stato piceno, invece era ciociaro e figlio di  mezzadri. Si era mantenuto agli studi facendo il cameriere.  Non aveva smesso neppure da filosofo laureato, i suoi problemi colla giustizia gli pesavano addosso come pietre anche se era stato prosciolto dall’accusa di essere un fiancheggiatore. L’esperienza del carcere era stata un trauma per lui come per me l’esilio. Reagiva a forza di sarcasmo e disprezzo e abuso di sostanze. Aveva tutt’ora l’obbligo di soggiorno, una specie di confino, e per lui il problema di cosa fare nella vita non si poneva più da un pezzo. Era uno Chef de Rang e tale sarebbe rimasto e introdusse infine anche me alla fulgida arte ed al periglioso cimento della Camerieria.
Iniziai facendo l’extra. Un battesimo brutale ad un ambiente tanto rigido e nonnista quanto l’esercito o il carcere, brulicante di ragazzini, immigrati, ex carcerati e delinquenti in rimessa che devono “svortà” una giornata. L’ultimo arrivato, specie se giovane ed avventista, non può sperare di vedere se non cessi e bicchieri tutto il giorno, mentre i fissi fumano pigramente e si strafogano di gelato. Cominciai a rubare cogli occhi e ad acquisire colla pratica i rudimenti del mestiere, il galateo del servizio il trattamento del vino la mise en place- ma perlopiù a portare  da “cammeriere romano cinque piatti co’ na mano” ,  a servire alla francese ai banchetti, a spinare e a sporzionare davanti al cliente. Spaventoso per fatica, orari che potevano arrivare alle dieci ore per turno, totalmente in nero e alla frusta di padroni che andavano dal meschino al laido molestatore al puro schiavista a quello che frugava nell’immondizia per recuperare l’osso del prosciutto, il lavoro era pagato bene soprattutto nell’alta stagione. Mi ci mantenni galleggiando qualche mese e poi Nico mi aiutò a diventare fisso dove lavorava lui ed entrai a far parte della Grande Famiglia Reggiani dove sarei rimasto- in ultimo sporadicamente- per i successivi otto anni.

Renzo Reggiani è un gangster, il più gelido  squalo abbia mai conosciuto in vita mia, eppure  di lì in poi, da lui o da Michele- ne avrei incontrato la mia bella parte. Quando divenni suo dipendente ne aveva altri quattromila - anni ruggenti di CAF avevano allevato mandrie di animali come lui. Gestiva tutte le mense scolastiche e delle case di riposo del Comune di Roma nonché una quindicina di ristoranti che andavano dallo charme al lusso al mastodontico e che alla fine avrebbe mandato tutti alla rovina allegramente. Nel 2000 erano tutti chiusi tranne uno, fortino suo e della sua famiglia, ma proprietà dell’Ente Eur  e dato in comodato gratuito per cinquant’anni. L’Eur dispone come vuole per i suoi amici.
In realtà come imprenditore Reggiani ha sempre fatto schifo è rimasto il rappresentante della Findus di Ostia Antica che era all’inizio della sua fulgida carriera,  quand’era solo alla prima moglie e ai primi quattro figli, i magnifici RR, Riccardo Rita Raffaele e Ruggero - verso la fine dicevamo tra noi camerieri che ogni figlio Reggiani nasce con un fallimento intestato e l’abuso di coca genetico.

 A un certo punto a quel rappresentante era successo qualcosa e nel giro di due o tre  anni gestiva un impero del catering aveva una nuova moglie  vent’anni più giovane colla bocca e le tette di gomma e un ufficio accanto a quello di Pippo Calò. Esponenti dell’ala Acilia Ostia della banda della Magliana erano assidui frequentatori dei suoi locali, gratis certo e pure di manina corta  colle mance. Ricordo Urbani er Pantera che veniva col figlio indementito da un incidente colla Porsche, la testa bovina rasata e tutta la fronte un reticolo di orrende cicatrici.
Reggiani l’avrebbe pagata più tardi quando il fallimento del gruppo e la morte giudiziaria e politica dei suoi protettori lo avrebbero costretto a svariati mesi sotto falso nome pena la gambizzazione. Ma lui ha la capacità di sopravvivenza di quel coccodrillo che è sempre stato e cui da vecchio assomiglia per la carnagione stropicciata e l’occhio piatto. Ancora vive e ancora campa del giochetto degli assegni scoperti, che fece venire l’infarto dopo pochi mesi ad uno dei suoi incauti soci. Ha ancora tre figli di secondo letto cui intestare fallimenti.

Con Nico vivemmo da vicino la sua stagione più sfrenata, quella dei locali ristrutturati a suon di "miardi" e dell’alcantara come se piovesse, degli chef strappati al Grand Hotel e dell’autista negro. Lavoravamo al suo locale prediletto, il Fungo dell’Eur, dove riceveva ed accoglieva -oltre a schiere di loro portaborse affamati- politici, caporioni dell’industria o autodenominati tali e nani e ballerine. Ai suoi tavoli De Vita e i suoi omologhi delle Sette Sorelle si riunivano quasi settimanalmente a fissare i prezzi della benzina e lo stato maggiore di Publitalia proprio a quei tavoli pianificò condusse e vinse la battaglia per l’assunzione del potere del nano pelato nel 94, quando a Reggiani rimanevano ormai solo tre ristoranti da affondare, oltre al nostro: il meraviglioso Sant’Urbano sull’Appia Antica e il Fantasie di Trastevere, ricavato all’interno di un teatro del Settecento e meta fissa di giapponesi frettolosi di ingollare cena e spettacolo folcloristico in tempi da record. A quei tavoli di caldo tek rosato, Roma ed il suo Agro fino ai Colli Albani  fino al mare ai nostri piedi- abbiamo servito di tutti, dalle puttane nigeriane mezze folli e dai trans rumorosi che stazionavano nelle stradine intorno alla torre- ricordo una simpaticissima che si piazzava tutte le sere col suo camper in Viale dell'Umanesimo e si metteva alla porta come a quella di un basso napoletano, spettegolando di tutto il quartiere- ai premi Nobel, un giorno un executive della Bristol Myers portò un anziano elegante signore eravamo la loro meta per le ospitate più prestigiose; una zanzara intrepida era riuscita a salire i quattordici piani del ristorante ed ora girava attorno al cliente inconsapevole mentre prendevo la comanda; istintivamente allungai la mano e la catturai al che il funzionario che se la faceva sotto dalla voglia di vantarsi del suo compagno "Lo sai" mi chiese" chi hai appena salvato?, Jean Luc Montaigner, lo scopritore del virus dell'AIDS!" Quando lo raccontai a Nicola ne fece il tormentone delle successive settimane, quando appena spuntavo da qualche parte ero accolto dal coretto in accento siciliano "Salvatore!". Pure la mia conoscenza del francese nonchè la servilistica ammirazione inscenata per tutto
  il servizio ci fruttarono mezza piotta di mancia.

Furono anni folli, per noi come per il paese in cui vivevamo, che accumulò il terzo debito pubblico  del mondo  e partorì e allattò
 una generazione di fancazzoni imbroglioni e/o di pescecani patentati. Facevamo nove o dieci turni a settimana, vivendo praticamente nel ristorante, non perché vi fossimo veramente costretti ma per pura avidità. Reggiani ci pagava al turno, con una busta paga simbolica e tutto il resto in nero, come conveniva a noi e a lui. Ci pagava bene per la nostra presenza, per la nostra cultura, per la nostra discrezione, parlavamo le lingue e lavoravamo con abilità sia alla carta che coi banchetti. Eravamo gli Chef di una piccola brigata di ragazzi, il più vecchio aveva trent’anni ed il più giovane appena diciassette, ma tutti esperti, un paio di scuola alberghiera.
Le mance erano incredibili, arrivando a superare lo stipendio in busta, anche di più per noi Chef.
Era una situazione privilegiata: fu minacciata una volta dall’arrivo di un Maitre, un bellimbusto gay abile nelle pubbliche relazioni che si era ceduto per un periodo ad una delle segretarie del Coccodrillo ma il cui curriculum poteva vantare a strigne solo  il fallimento del noto Fontana Candida, un tempo pregiata  proprietà di suo padre, nonchè un prozio omonimo antico e famoso cardinale. Lo facemmo cacciare noi, facendo trovare a Riccardo, il figlio  Reggiani maggiore, quattro cinque belle piste preparate sul tavolo di vetro dell'ufficio del gaglioffo, mentre vi entravano con alcuni ispettori del SIAN; Reggiani capì l’antifona, Riccardo divenne il Direttore del ristorante e la sala rimase in mano a noi.
 Ci tenevamo su usando di tutto colla compresa - cocaina e anfetamine per reggere le giornate infinite, alcool e hashish quando dovevamo “spegnerci” o smussare gli angoli più acuti degli stimolanti . Sperimentavamo come college freshmen, scambiandoci sostanze e provandone di nuovissime, le prime metamfetamine sintetiche la prima MDMA. Noi due ci chiamavamo l’un l’altro maitre, e così facevano i colleghi per prenderci per il culo; ma portavamo avanti i cento posti della sala alla carta con una mano sola, senza una sbavatura.


Le droghe ci spingevano ai limiti della resistenza umana fisica e psichica, e la paranoia arrivava a dilaniare le brigate di cucina e di sala. Scoppiavano risse furibonde...


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