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Saturday, December 17, 2011

Le assistenti sociali del Comune mi presero sotto la loro ala protettiva, quando comunque fu loro chiara l'inadeguatezza genitoriale di mio padre. Non so bene come sia sfuggito in quei giorni all'incubo di un internamento in orfanatrofio. Probabilmente ero abbastanza grande da risultare poco gradito alle suore, cui mi presentarono una volta, all'Istituto San Tarcisio lungo la strada per Velletri, o forse la retta richiesta era troppo alta per il bilancio comunale. Il terrore che mi colse quel giorno, quando compresi sulla sedia di formica nella squallida sala d'aspetto della Superiora che si stava decidendo del mio destino  oltre il vetro fumè della porta del suo ufficio... L'immaginetta agonica del Santo giovinetto riprodotto in plastica di color bianco funereo mi parve il preannuncio di ciò che sarebbe stato di me lì dentro, a giudicare delle espressioni torve dei preadolescenti che mi fissavano dalla finestra che dava sul cortile di terra battuta. Non dimenticherò mai quell' immagine e quei volti cupi di orfani e spostati che mi perseguitarono per molti mesi a venire, quando mi fu infine chiaro che i miei quindici anni e l'ordine immacolato in cui tenevo ossessivamente la nostra stanza e il nostro guardaroba avevano ormai dissuaso le care donne dal prendere ulteriori provvedimenti.
Mi iscrissero però alla Scuola Media Jusepe Garibaldi, alla seconda della sezione E. Forte della mia esperienza di Providencia, dove anche un nuovo alunno di Santiago era un nemico straniero da prendere a sassate ogni qualvolta non ci fosse un adulto nelle vicinanze, mi figurai in molte notti settembrine insonni esotiche torture europee che mi avrebbero inflitto quei misteriosi bambini italiani.
In realtà i ragazzini di Genzano erano buoni come il famoso pane del paese, altrettanto floridi e ben tirati a lucido, figli di mamma accomodanti e ben disposti ad accogliere chiunque sapesse almeno un pò giocare a calcio durante la ricreazione, ed io ero bravo e più alto e atletico della maggior parte di loro. Fui subito per loro un buon compagno, un pò silenzioso, ma accettato e ricercato. Capitai in una classe "sperimentale" sui cui banchi sedevano fianco a fianco la figlia del farmacista e il figlio del bracciante, guidata con piglio donmilanesco da un'insegnante di lettere, una giovane donna di famiglia altoborghese votata ad uno zitellaggio politico-religioso , che alla croce di Francesco esibita al collo univa uno spirito egualitario-sessantottino pieno di calore. Ero un bambino intelligente, certo non come la mia desaparecida sorella,che era stata il genio della famiglia; tuttavia il buon sangue del professore universitario mio padre non si smentiva nemmeno in me.
La buona professoressa non mancò di notarmi, benchè in maniera alquanto diversa da quella delle assistenti sociali. Per lei non ero un caso da seguire ma una persona con cui seriamente relazionarsi, cercando soprattutto di capire cosa volessi veramente. Era la prima volta che qualcuno mi trattava da giovane adulto; ero stato "il piccolo" nella mia famiglia e dopo di ciò lo stato di profugo aveva marcato automaticamente una mia condizione di minorità. Grazie a lei, invece, andare a scuola mi diede autostima, un senso di normalità e una ragione per ricominciare a vivere, vivevo per imparare, l'italiano la matematica la storia; cominciai a leggere avidamente libri, romazi, poesie, tutto quanto mi potesse aiutare a migliorare la lingua. Ricordo le opere di Pavese e di Vittorini della biblioteca di classe, la "Storia della Seconda Guerra Mondiale" di Raymond Cartier, così appassionante e così anticomunista, i canti gitani ed andalusi di Garcia Lorca in una vecchia edizione italiana ingiallita ma con il meraviglioso testo a fronte, oh quanto quanto cupamente consoni al mio profondo nascosto dolore.


Fu allora che tìo Max (ri)entrò nella mia vita. Vidi i manifesti in piazza del programma della Festa dell'Unità di quel settembre, quasi all'inizio del mio secondo anno scolastico in Italia, e quasi cascai per terra a leggere il nome del famoso gruppo musicale di cui Max era stato cofondatore negli anni della UTE, quando era stato studente di mio padre, il famoso ingegner poeta. In quegli anni avevano condiviso ideali e poesia nello scantinato dell'Università in cui avevano sede i club culturali e politici degli studenti; mio padre per il poco che posso ricostruire ero piccolo, cinque o sei anni, era stato un po' un loro padre intellettuale putativo, un poeta pubblicato, un professore militante,  uno che leggeva i suoi cantos alla Pena del Los Parras con l'accompagnamento di Violeta, un affabile mito. Frequentavano in tanti la nostra casa che era sempre piena di canzoni e di ragazzi e del cibo contadino che cucinava mia madre e del vino tinto argentino che piaceva mio padre. Anche se lui era Professore non eravamo ricchi.
Andai al concerto con un tremore nel cuore come si va a un matrimonio o a un funerale. Il mio ricordo di quella serata è confuso e molto emozionale, ero proprio sotto al palco di legno, ricordo bene solo il colore vinaccia dei loro ponchos e ben poco dei loro volti o della folla, colori e sensazioni vivide, come gli odori delle griglie della cucina; così mi sarebbe successo quando anni dopo mi sarei fatto di hashish, una stessa vaghezza selettiva del ricordo. Soffrii come un cane ad ogni nota e riuscii ad intrufolarmi nel backstage. Max mi riconobbe subito nella confusione, con le lacrime agli occhi mi attirò subito a sè, mi abbracciò, mi chiese di mio padre, di mia madre e della sorellina. Ero senza respiro ammutolito dall'emozione e mortalmente sbalordito dall'idea che avessimo abitato per più di un anno nello stesso paesino italiano senza saperlo; Max certo non vi stava molto erano sempre in giro col gruppo a far politica musica  e murales a scuotere le coscienze degli Europei affranti dal fascismo che aveva ingoiato una nazione così simile alle loro, e poi altre a loro ancora più vicine, piene di loro compatrioti emigrati.

                               

Ci venne a trovare alla pensione il giorno dopo. Mi fecero uscire e lui parlò a lungo con il suo Professore; quando rientrai quasi di soppiatto come un ladro erano in silenzio e Max gli teneva le mani.

Seppi poi che aveva preso contatto col Comune e con le Assistenti Sociali. Quando inziò la scuola, andò a parlare con la brava Professoressa.

Durante quell'anno ci mandò costantemente dei soldi e libri e quaderni e vestiti e tutto quello che mi poteva servire per la scuola, per quanto lo vedessi poco per i suoi impegni  ed infine, erano quasi le vacanze ed io stavo  sostenendo gli esami che mi avrebbero diplomato col massimo dei voti, venne a prendermi un giorno con un italiano, un ragazzo molto alto e molto grosso con una folta barba nera e un eskimo e piccoli occhi scuro ravvicinati, quasi strabici. Si chiamava Goffredo.


Avevano una piccola macchina color verde veronese pallido, una Fiat 128. Non ho mai visto nè prima nè  dopo di allora un'auto di un colore così ridicolo. Mi prese da una parte e mi parlò a lungo con dolcezza. Tu sei bravo e intelligente, mi disse, grazie a questi bravi compagni italiani ti faremo studiare, potrai farlo se prenderai sempre buoni voti e se ti prenderai cura del Professore come hai fatto finora.


Salimmo in macchina ed andammo a Roma. Non ci ero ancora mai stato, con stupore mi trovai a percorrere con loro l'Appia Antica, passammo davanti alle Terme di
Caracalla ed ebbi una fugace visione del Colosseo in fondo ad una grande via a sei corsie fiancheggiata da pini maestosi .Trovammo un parcheggio ai piedi della Scalinata dell'Ara  Coeli. Non ci potevo credere quando entrammo in Campidoglio. C'erano dorature affreschi e velluti ovunque e la Lupa di Bronzo. Era un panorama cui Goffredo si sarebbe poi abituato.

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