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Sunday, August 25, 2013

   


Vogliamo parlare di lutto o di elaborazione del lutto o di mancata elaborazione? Di quest'ultima sono un esperto, ho fuggito i miei lutti e le loro elaborazioni per più di trentacinque anni con discreto successo. E' stato facile con mia madre, avevo dodici anni ed ero solo in Argentina, cosa potevo fare se non piangere inarticolatamente senza potere o volere dare una voce a quel che sentivo?
Non c'è stato punto più basso nella mia esistenza. Non sono stato mai un bambino molto comunicativo,  ma con lei parlavo-ero il piccolo mulato nato un po' a sorpresa quasi dieci anni dopo la mia fulgida sorellina, la primadonna assoluta della nostra scena familiare, la luce della vita di mio padre, bionda e bianca, le sue sorprendenti iridi azzurre un mistero genetico anche per lui, biondo e bianco veneto-cileno ma con pensosi occhi castani. Aveva sposato mia madre giovanissima india mapuche cameriera a Providencia più per affermare una posizione ideologica che per una qualche più profonda comunanza di sentimenti e di intenti, e credo che lei ne fosse sorpresa e gliene fosse umilmente grata. Soprattutto non poneva nessun tipo di competizione alla sua mite ma gelosa superiorità. Era una donna semplice, una madre povera di parole ma molto generosa di gesti e carezze. Con lei parlavo nel suo dialetto che mio padre nemmeno conosceva e mia sorella comprendeva ma si rifiutava forse inconsciamente di usare: non credo che come role model la sua dolce  mamma campesina potesse avere alcun appeal su di lei.
Io e mamma invece eravamo i due unici  felici abitanti della nostra piccola ruca con una sola porta, indisturbati e dolcemente ignorati dai due più esuberanti coinquilini: era un mondo fatto di tenere parole di tutti i giorni, cucina sempre calda e saporita, lavori di casa condivisi cantando a voce bassa vecchie filastrocche di campagna. Ero stato un bambino cicciottello e un po' lento, a late developer, facile da ignorare per mio padre; le strade di Providencia e la preadolescenza mi avrebbero allungato e indurito senza però che arrivassi mai ad attirare veramente la sua attenzione, che ritornassi a casa pesto e lacero da qualche battaglia di babygang o con un buon voto in qualche materia. Non ero geloso. Era uno stato di cose che non mi addolorava in alcun modo, mi sembrava giusto e logico e non ne avevo mai conosciuto un altro, ed inoltre adoravo mia sorella con l'amore e la riverenza naturale di un fratello più piccolo, resi ancor più fervidi dal fatto che lei mi ricambiasse. Ero stato la sua bambolina vivente da piccolissimo e per quanto le nostre vite corressero divise da uno iato incolmabile di compagnie e contingenze- lei adolescente e già brillantemente proiettata tra gli adulti quando ancora ero un infante attaccato alle gonne della mamma- la sua tenerezza nei miei confronti era sempre viva, sempre evidente, la sua attenzione a me e ai miei piccoli problemi tanto più gratificante quanto più indiscussa la sua posizione dominante nella famiglia. Era quasi come essere amato e considerato dal Professore per interposta persona, ed io e lei la catena umana che saldava l'unione misteriosa dei nostri genitori.
Negli affetti di genitore ne avevo solo uno, e poi un altro augusto parente, un autorevole prozio, un giovane nonno che girava per casa, benchè non mi abbia mai trattato duramente, mio padre, una persona naturalmente indulgente come ogni essere superiore. Sembrò così normale che la tragedia ampiamente annunciata di quel settembre vedesse me e mia madre, una mattina che rimbombava di tuoni e cannoni , spediti insieme dal fratello di mio padre, a me quasi sconosciuto, fervente nazionalista, mentre lui, il Professore, correva alla sua Ute, dove stavano accadendo orrori indicibili, e dove era la figlia.  Era intorno a mezzogiorno quando alla finestra si udì ripetutamente il rombo mostruoso dei caccia a bassa quota e numerose esplosioni lacerarono l'aria di Santiago. Mio zio alla finestra mormorò: la Moneda brucia. Ero piccolo ma il senso catastrofico di queste parole non mi sfuggì. Il mio mondo stava crollando.
 I giorni passarono senza che li potessi contare, chiuso nella casa signorile dello zio dove tutti parlavano a sussurri per non farsi sentire da me, e neanche da mia madre, perlopiù, che se ne stava composta in un silenzio senza lacrime, al tavolo della cucina o in un angolo del salotto, vicino alla finestra, dietro le piante d'appartamento. Tramite mio zio, infine, ricevemmo secche istruzioni da mio padre: un indirizzo vicino a Mendoza, un itinerario da seguire, un indefinito appuntamento. Agli zii la nostra partenza fu di sollievo: ci impacchettarono su un autobus, colmandoci di doni, denaro, cibo per tutto il viaggio; era una vita che mio padre imbarazzava la famiglia, il sangue è sangue ma c'è un limite a tutto, anche questa negra poi, qualche sussurro, sì,  l'avevo udito, non troppo accuratamente sussurrato.
Dio solo sa l'angoscia della povera india, su quel mezzo scalcinato. Cambiammo senza errori a Llaillay, ma quando fummo fatti scendere ben prima del confine... Io, alto ormai più di lei, mi ci stringevo sgomento, senza poter immaginare il suo terrore, che ora mi figuro, a trovarsi in mezzo a quelle montagne fredde, alte, deserte, non un albero, un filo d'erba, una costruzione in vista. Vertiginoso Nulla. Polvere sulla strada e neve sulle vette distanti. Mi immedesimo ora nella sua paura, nascosta per amor mio, abbandonata com'era senza capire bene perchè- in uno spiazzo- todos abajo- dicevano i carabineros- hoy no se pasa hoy, manana, manana.
Al calar della notte risolutamente raccolse le sue cose e mi prese per mano, ero accucciato affranto sul bordo della strada, e ignorata da tutti si incamminò per il Cristo Redentore.



    
                                                 

Il Cristo non lo vidi mai. La strada era un incubo, il passo chiuso per una nevicata precoce. Non avevo mai visto la neve, mi stupì quant'era bagnata. Non c'era ancora il tunnel che che avrebbero finito nell'80; nella neve e nella notte salimmo in un silenzio rotto dai nostri respiri sempre più faticosi. Seguimmo pedestremente chilometri di caracoles prima che mi venisse in mente di provare a tagliarle; la salita era più faticosa ma più veloce, e la pietraia non era impossibile da percorrere laddove la neve era più sottile: andammo così finchè potemmo. Una luce siderale emanava all'inverso dalla terra al cielo, il bianco della neve. Non so quando esattamente superammo il passo, avevo nausea e mal di testa e mi sentivo confuso. Il gelo era acuto ma l'aria secca e leggera, quasi nello sforzo intenso  freddo non si sentiva. Eravamo ben coperti grazie agli zii ma i piedi si erano fatti a un certo punto insensibili. Le dita brillavano bianchissime nel lucore irreale. Seguii mia madre che marciava implacabile come un automa come se fermarsi fosse morire, forse lo era, e mi resi conto che ad un certo punto la strada era in leggera discesa, un pendìo dolce; ma camminammo tutta la notte prima che un enorme autotreno ci superasse.
Si fermò dopo poco e capimmo. Accelerammo disperatamente ed ascendemmo nel paradiso della cabina tiepida. L'autista, scuro, grossi baffi neri, schiarì la voce e disse gentilmente"Yò llego  a Mendoza, Senora". Mia madre scoppiò in un pianto dirotto e non parlammo più fino all'arrivo a quella città. Non credo che l'uomo avesse dubbi su cosa eravamo e da dove venivamo. Non commentò.
                                                  
                                                


           ▶ Parque San Martin en Mendoza - Argentina ®

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