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Tuesday, August 27, 2013

L'epitome del misfit,  mapuche tra i quechua, mulato tra i bianchi, cileno tra gli italiani, e poi: italiano tra i cileni. Senza patria, senza dio, senza famiglia, in un pianeta sradicato e sempre più sottosopra. Io.

Sunday, August 25, 2013

   


Vogliamo parlare di lutto o di elaborazione del lutto o di mancata elaborazione? Di quest'ultima sono un esperto, ho fuggito i miei lutti e le loro elaborazioni per più di trentacinque anni con discreto successo. E' stato facile con mia madre, avevo dodici anni ed ero solo in Argentina, cosa potevo fare se non piangere inarticolatamente senza potere o volere dare una voce a quel che sentivo?
Non c'è stato punto più basso nella mia esistenza. Non sono stato mai un bambino molto comunicativo,  ma con lei parlavo-ero il piccolo mulato nato un po' a sorpresa quasi dieci anni dopo la mia fulgida sorellina, la primadonna assoluta della nostra scena familiare, la luce della vita di mio padre, bionda e bianca, le sue sorprendenti iridi azzurre un mistero genetico anche per lui, biondo e bianco veneto-cileno ma con pensosi occhi castani. Aveva sposato mia madre giovanissima india mapuche cameriera a Providencia più per affermare una posizione ideologica che per una qualche più profonda comunanza di sentimenti e di intenti, e credo che lei ne fosse sorpresa e gliene fosse umilmente grata. Soprattutto non poneva nessun tipo di competizione alla sua mite ma gelosa superiorità. Era una donna semplice, una madre povera di parole ma molto generosa di gesti e carezze. Con lei parlavo nel suo dialetto che mio padre nemmeno conosceva e mia sorella comprendeva ma si rifiutava forse inconsciamente di usare: non credo che come role model la sua dolce  mamma campesina potesse avere alcun appeal su di lei.
Io e mamma invece eravamo i due unici  felici abitanti della nostra piccola ruca con una sola porta, indisturbati e dolcemente ignorati dai due più esuberanti coinquilini: era un mondo fatto di tenere parole di tutti i giorni, cucina sempre calda e saporita, lavori di casa condivisi cantando a voce bassa vecchie filastrocche di campagna. Ero stato un bambino cicciottello e un po' lento, a late developer, facile da ignorare per mio padre; le strade di Providencia e la preadolescenza mi avrebbero allungato e indurito senza però che arrivassi mai ad attirare veramente la sua attenzione, che ritornassi a casa pesto e lacero da qualche battaglia di babygang o con un buon voto in qualche materia. Non ero geloso. Era uno stato di cose che non mi addolorava in alcun modo, mi sembrava giusto e logico e non ne avevo mai conosciuto un altro, ed inoltre adoravo mia sorella con l'amore e la riverenza naturale di un fratello più piccolo, resi ancor più fervidi dal fatto che lei mi ricambiasse. Ero stato la sua bambolina vivente da piccolissimo e per quanto le nostre vite corressero divise da uno iato incolmabile di compagnie e contingenze- lei adolescente e già brillantemente proiettata tra gli adulti quando ancora ero un infante attaccato alle gonne della mamma- la sua tenerezza nei miei confronti era sempre viva, sempre evidente, la sua attenzione a me e ai miei piccoli problemi tanto più gratificante quanto più indiscussa la sua posizione dominante nella famiglia. Era quasi come essere amato e considerato dal Professore per interposta persona, ed io e lei la catena umana che saldava l'unione misteriosa dei nostri genitori.
Negli affetti di genitore ne avevo solo uno, e poi un altro augusto parente, un autorevole prozio, un giovane nonno che girava per casa, benchè non mi abbia mai trattato duramente, mio padre, una persona naturalmente indulgente come ogni essere superiore. Sembrò così normale che la tragedia ampiamente annunciata di quel settembre vedesse me e mia madre, una mattina che rimbombava di tuoni e cannoni , spediti insieme dal fratello di mio padre, a me quasi sconosciuto, fervente nazionalista, mentre lui, il Professore, correva alla sua Ute, dove stavano accadendo orrori indicibili, e dove era la figlia.  Era intorno a mezzogiorno quando alla finestra si udì ripetutamente il rombo mostruoso dei caccia a bassa quota e numerose esplosioni lacerarono l'aria di Santiago. Mio zio alla finestra mormorò: la Moneda brucia. Ero piccolo ma il senso catastrofico di queste parole non mi sfuggì. Il mio mondo stava crollando.
 I giorni passarono senza che li potessi contare, chiuso nella casa signorile dello zio dove tutti parlavano a sussurri per non farsi sentire da me, e neanche da mia madre, perlopiù, che se ne stava composta in un silenzio senza lacrime, al tavolo della cucina o in un angolo del salotto, vicino alla finestra, dietro le piante d'appartamento. Tramite mio zio, infine, ricevemmo secche istruzioni da mio padre: un indirizzo vicino a Mendoza, un itinerario da seguire, un indefinito appuntamento. Agli zii la nostra partenza fu di sollievo: ci impacchettarono su un autobus, colmandoci di doni, denaro, cibo per tutto il viaggio; era una vita che mio padre imbarazzava la famiglia, il sangue è sangue ma c'è un limite a tutto, anche questa negra poi, qualche sussurro, sì,  l'avevo udito, non troppo accuratamente sussurrato.
Dio solo sa l'angoscia della povera india, su quel mezzo scalcinato. Cambiammo senza errori a Llaillay, ma quando fummo fatti scendere ben prima del confine... Io, alto ormai più di lei, mi ci stringevo sgomento, senza poter immaginare il suo terrore, che ora mi figuro, a trovarsi in mezzo a quelle montagne fredde, alte, deserte, non un albero, un filo d'erba, una costruzione in vista. Vertiginoso Nulla. Polvere sulla strada e neve sulle vette distanti. Mi immedesimo ora nella sua paura, nascosta per amor mio, abbandonata com'era senza capire bene perchè- in uno spiazzo- todos abajo- dicevano i carabineros- hoy no se pasa hoy, manana, manana.
Al calar della notte risolutamente raccolse le sue cose e mi prese per mano, ero accucciato affranto sul bordo della strada, e ignorata da tutti si incamminò per il Cristo Redentore.



    
                                                 

Il Cristo non lo vidi mai. La strada era un incubo, il passo chiuso per una nevicata precoce. Non avevo mai visto la neve, mi stupì quant'era bagnata. Non c'era ancora il tunnel che che avrebbero finito nell'80; nella neve e nella notte salimmo in un silenzio rotto dai nostri respiri sempre più faticosi. Seguimmo pedestremente chilometri di caracoles prima che mi venisse in mente di provare a tagliarle; la salita era più faticosa ma più veloce, e la pietraia non era impossibile da percorrere laddove la neve era più sottile: andammo così finchè potemmo. Una luce siderale emanava all'inverso dalla terra al cielo, il bianco della neve. Non so quando esattamente superammo il passo, avevo nausea e mal di testa e mi sentivo confuso. Il gelo era acuto ma l'aria secca e leggera, quasi nello sforzo intenso  freddo non si sentiva. Eravamo ben coperti grazie agli zii ma i piedi si erano fatti a un certo punto insensibili. Le dita brillavano bianchissime nel lucore irreale. Seguii mia madre che marciava implacabile come un automa come se fermarsi fosse morire, forse lo era, e mi resi conto che ad un certo punto la strada era in leggera discesa, un pendìo dolce; ma camminammo tutta la notte prima che un enorme autotreno ci superasse.
Si fermò dopo poco e capimmo. Accelerammo disperatamente ed ascendemmo nel paradiso della cabina tiepida. L'autista, scuro, grossi baffi neri, schiarì la voce e disse gentilmente"Yò llego  a Mendoza, Senora". Mia madre scoppiò in un pianto dirotto e non parlammo più fino all'arrivo a quella città. Non credo che l'uomo avesse dubbi su cosa eravamo e da dove venivamo. Non commentò.
                                                  
                                                


           ▶ Parque San Martin en Mendoza - Argentina ®

Friday, August 23, 2013

Insomma Michele, sempre Michele. Affittai per suo tramite la mia casa di San Saba ad un onorevole ccd, un amante dell'arte e della coca, le specialità minesiane; erano venuti in contatto attraverso uno dei Cardinali ed avevano entusiasticamente condiviso le loro passioni. Pidiellino, poi, la coca avrebbe mandato il tizio così fuori di testa da provocargli un giorno un episodio psicotico mentre era in compagnia di due trans, con intervento di CC e prime pagine dei giornali per giorni. Ma tant'è; è ancora in gioco, ancora di stanza a San Saba, sempre azzurro: la civiltà sofisticata di questo meraviglioso e incomprensibile paese che è l'Italia si esprime al meglio nella corruzione, è l'unico posto al mondo in cui la corruzione è una  disciplina accademica, metà scientifica e metà artistica, un valore tanto culturale quanto estetico.
  Mi trasferii a via Goito, che era anche più comoda per la mia impresa cilena; mantenni per breve tempo un rapporto interinale col Fungo, Nico mi chiamava volentieri a fare degli  extra per la mia conoscenza dell'ambiente e del lavoro, ma anche questo debole legame si inaridì col tempo. Non sono mai stato bravo a mantenere relazioni a lungo termine di nessun genere oltre quelle che si potrebbero definire contingenze esistenziali. Sono grande ad essere il più cordiale ed affidabile e profondo dei conoscenti ma una frana come amico, fidanzato o qualunque altra cosa richieda impegno attivo. So che nel suo modo brusco e ritroso lui ne soffrì. Il suo sarcasmo su me e Michele, le fidanzatine, era abbastanza atroce e crudele da darmi l'esatta misura del suo dolore  ma per quanto la cosa mi dispiacesse ero e sono sempre stato incapace di superare questo stato di passività esistenziale. Nella mia vita le cose accadono senza che ne abbia responsabilità e a volte nemmeno piena consapevolezza. Ciò mi porta a restare preda di soggetti più attivi di me che prendono le redini della mia esistenza quasi loro malgrado. So fare resistenza passiva se serve ma perlopiù lascio fare. Così faceva Michele con me, lui  un disastro personologico ambulante e pure così pieno di vita, di appetiti, di ferina malignità, ma l'essere più integralmente innocente che abbia conosciuto tanto costantemente, incessantemente fuori di sè passava i suoi giorni.
Nemmeno avrei potuto sapere quanto definitiva di lì a poco sarebbe stata la perdita del mio amico. Sembra che ad ogni svolta, ad ogni progresso della mia esistenza debba per forza pagarla qualcuno: la mia salvezza dal Chile fascista l'aveva pagata mia madre, morta a Mendoza di quella polmonite che aveva contratto a causa del passaggio  a piedi, di notte, del Cristo Redentore con due metri di neve. San Saba l'aveva pagata mio padre, che vi era morto di cirrosi epatica: l'avevo trovato una mattina, per terra nella sua stanza, nel  lago di sangue nero di un'emorragia gastroesofagea, e non sapevo se ero più disperato o stupefatto, se n'era andato senza una parola, senza un grido, senza un rumore, muto come era da anni ed io nella stanza accanto non mi ero accorto di nulla.
La mia affrancatura dalla schiavitù chimico-economica della Camerieria la pagò Nicola.  Da qualche settimana sembrava più affannato e tossiva più del solito, mi raccontarono gli amici, Luca, Albo , Riccardo Reggiani, al funerale; erano i sintomi di uno pneumotorace spontaneo di lieve entità, un classico per un forte fumatore e cocaine abuser come lui, esitato in un primo grave  pneumotorace ipertensivo un giorno in pieno servizio, dolore toracico, dispnea, svenimento con ricovero al Forlanini, inserzione di tubi , drenaggi...E non mi aveva detto niente, lo stronzo, e nemmeno loro, per indifferenza, per risentimento perchè mi ero salvato dal Fungo e da Reggiani e non ero più uno di loro, o chissà perchè. Avrebbe dovuto smettere di fumare, di sniffare, anche di bere ma in fondo lui aveva così poco che lo legasse a questa terra, due anziani genitori, un'esistenza meschina tra fumi di cucina e clienti pieni di merda, il servaggio della droga che inghiottiva il denaro consistente che guadagnava e con quello ogni velleità di proiezione esistenziale, inchiodandolo ad un vischioso presente senza pietà nè desideri. Come me, in fondo, che dovevo a Michele e al dottore del Ps del Policnico e forse alla mia ripugnanza della malattia e del dolore fisico una temporanea salvezza.
 Recidiva garantita, sennò, avevano detto i dottori,  e una notte, a casa a Spinaceto, solo,  non c'era nessuno ad accorgersi di lui, dell'emergenza,  si era lentamente soffocato, ogni inspirazione che andava a spirare nella pleura, comprimendo un grado in più , lentamente , inesorabilmente gli organi interni, stomaco, intestino, cuore, fino alla morte. Non c'era da stupirsi dello sguardo follemente angosciato che Luca ed Albo gli avevano visto nel viso bloccato dal rictus, il torso mezzo dentro e mezzo fuori dal letto a tentare una fuga impossibile dal suo Destino. Era stato troppo fatto o troppo ubriaco per accorgersi in tempo di quanto stava accadendo e cercare aiuto. Aiuto poi da chi? nel palazzone anonimo di edilizia popolare dove stava?, dove chiunque fosse entrato nel suo appartamento, protetto da grate e serrature blindate, il meno che poteva fargli era derubarlo o occupargli la casa, lui ancora preso ad esalare l'ultimo laborioso respiro.


               

Wednesday, August 21, 2013

Il mio passato mi appare oggi come un arcipelago di esperienze disconnesse - a volte così mi sento a cercare di riconciliare le mie persone interiori come  fossero i continenti lontani e incomunicati che sono stati lo sfondo dei miei giorni- forse le sostanze mi hanno fatto questo o gli eventi traumatici che hanno costellato la mia adolescenza. E' così difficile ordinare in una narrazione coerente quello che ho visto accadere a me e intorno a me che lo sforzo di farlo si carica di una vibrazione salvifica- ermeneutica- se riesco a dirlo allora avrà un significato ed io una forma di esistenza e quello che ho fatto poi una sua comprensione. Almeno per me: quello che cerco non è una giustificazione.
Il giorno che ci assegnarono la casa popolare di San Saba lo rammento così: scene smaglianti , ricche, rubensiane di ambienti sontuosi, ma lo sovrappongo a quello in cui , dopo la morte di mio padre, premiarono la mia maturità con lode con una borsa di studio universitaria, l'ultima cortesia di
tio Max
al figliolo del suo Professore, prima di andarsene da San Lorenzo verso lidi meno emotivamente labili dell'Italia, verso palcoscenici internazionali e la world music. Non ricordo più nemmeno se ho ricevuto l'una dall'Architetto vago o l'altra dal sindaco affannato e pure onnipresente, sempre in campo persino ad interessarsi di un  profugo arruffato dal look  extraparlamentare, con cui trovare il tempo di farsi una foto. Tanto più che al tempo della borsa di studio il Chile non era più tanto di moda. Non faceva più tanto paura, l'idea che l'avessimo portato con noi come un contagio, il golpe, non dopo il 1976. Se il paese aveva superato quasi indenne il 1978, si ragionava, la democrazia poteva considerarsi matura, si poteva persino progettare un'alternanza senza temere di finire come noi.

       

Nulla di più lontano da quello che sarebbe di lì in poi accaduto, con buona pace delle politologie ideologiche o anche no, LA MORTE MORALE DI UNA NAZIONE, una democrazia ingrippata nella decomposizione in vita delle idee del Novecento incapaci di esalare un ultimo respiro e togliersi dalle palle. Tutto si perde negli anni horribiles che seguirono. Valori solidarietà relazioni speranze. Tutto si omogeneizza indementendosi nel balletto incessante di Drive In. Pozzetto fa film con Boldi. Pietrangeli fa il regista ai talk show. Gerardo Panno e Alberto Piccinini si integrano alla Rai. Io, il filosofo punk, servo ai tavoli del Coccodrillo.