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Thursday, October 3, 2013




Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 1

E' curioso come in campagna si trovi una concentrazione di eccentrici per kmq MOLTO più alta che in città, nonostante la diversa densità abitativa. Questa era la mia netta impressione i primi anni che abitavo da Michele, ma forse ciò vale solo per Contrada Fornaci, la mia esperienza di campagnoli è limitata ai suoi abitanti. Forse è l'acqua, che dalle condotte di Poggidoro cola nelle ubiquitarie cisterne appena un rigagnolo inquinato di arsenico e colibatteri fecali, l'acquedotto di Velletri uno dei più estesi e bucherellati d'Italia a servire le diecimila case abusive che ne costellano il ridente territorio. Forse l'aria secca di questo costone roccioso, di qualche grado costantemente più calda che a Genzano ( tre km in linea d'aria )  tant'è protetto dai venti settentrionali, arido, nonostante appartenga territorialmente al Comune di Velletri (statisticamente uno dei più piovosi d'Italia, media annuale 1550 mm, data la sua posizione alla confluenza di due catene montuose, i Colli Albani e i Monti Lepini, a due passi dal mare)- tutta l'umidità che risale dalla Pianura Pontina si condensa nella stretta valle velletrana, effetto stau da manuale.
 Ma non a Contrada Fornaci, che pure non deriva il  nome dalle sue condizioni microclimatiche eccezionali che ne fanno un mondo a parte, nascosto alla vista dei passanti sull'Appia Nuova e l'Appia Vecchia come alla meteorologia locale, e pure un buco nero dei segnali radio televisivi e di telefonia mobile causa la sua situazione proprio sotto uno dei più importanti ripetitori dei Castelli Romani e del Pontino settentrionale, e pure sismicamente del tutto immune agli sciami sismici caratteristici dell'area vulcanica dei Castelli! forse a causa del suo fondo di durissima pietra lavica. Contrada Fornaci è probabilmente un toponimo storico, del genere derivato dalle antiche attività che vi si svolgevano. Cocci di ogni genere, manici d'anfora, antefisse sbreccate, laterizi completi di bolli , decorazioni fittili amputate di quasi ogni ornamentazione, scarti delle lavorazioni di secoli, riaffiorano ad ogni sarchiatura di vigna, incessantemente, come il ribollire di un soffione sottomarino. Una tozza struttura in opus incerto torreggia sulla contrada, una cisterna? Le vigne sono punteggiate qua e là dai grossi basoli grigi della strada romana che i contadini genzanesi della riforma agraria subito dopo la guerra avevano ricomposto, in parte per orgoglio della loro ascendenza,   in parte per discendere più facilmente ai Landi e ai Colli di Cicerone e a Marcavallo e ai Muti ai loro appezzamenti. Un piccolo pezzo è ancora lì, ancora visibile, a dare il nome all'unica strada della contrada, Appia Antica, basolato e crepidine di tufo a impreziosire gli ingressi delle  ville sontuose al sommo capo del suo percorso all'incrocio con la SS 7.
   

  Forse non era  la vera Appia Antica, ma chissà quale strada di servizio, in un'area densamente abitata anche allora, tra il Palazzo degli Antonini, appena oltre il colle di Montecagnoletto, l'anfiteatro di Commodo di Gladiatoriana memoria a cinquecento metri dalla Contrada, a Nord; e a  Sud  gli imponenti ruderi del Castello di san Gennaro, villa agricola tardo romana divenuta poi una delle fortezze chiave del sistema difensivo della Valle Latina, contese per secoli tra gli Annibaldi e i Savelli e i Colonna e tutta quella marmaglia di rissosi e sanguinari nobilastri romani.
Fantasmi si insediano più comodamente in queste case che in quelle di ogni altra zona io abbia conosciuto: una succursale afosa della Scozia. Spiritelli ne infestano i prati di notte; fuochi fatui che farebbero la gioia degli ufologi e di Mistero rivaleggiano con le lucciole, fossi profondi come canyon fitti di querce e lecci secolari, tane d'istrici e di volpi, faine e donnole che ne devastano i pollai, saettoni e colubri giallo verdi grossi come un braccio e lunghi due metri che si accoppiano nel sole di giugno sui viottoli arsi, intessendosi in trecce  pulsanti di due tre quattro serpenti  soffiando come gatti, urla agghiaccianti di civette e barbagianni che squarciano il buio estate e inverno: tutto ciò non mi sembra basti a giustificare l'endemica follia e la tendenza alla devianza degli abitanti, indigeni e no, di questa landa.
Una mappa:

Giacinto

a Est sud est la casa di Giacinto, storico spacciatore di Genzano, biondo, baffi e barba, occhiacci slavi, un Galata burino e arruffato concentrato in uno scarso metro e sessanta di altezza. Fuori dell'imponente cancello automatico, la cui apertura e chiusura è udibile a chilometri di distanza, nè nome nè cognome ma una targa che è tutto un programma: Frà Cazzo da Velletri. Da piccolo spacciatore del muretto, Giaci era divenuto col tempo, insieme al fratello, un grosso movimentatore di roba. Aveva costruito una villa, abusiva, di gusto sorprendente, alle Fornaci, perchè zona vicino al paese ma sufficientemente discreta, e oltre alle sue attività istituzionali vi allevava cani di razza, mastini napoletani e cani corsi e piccoli coton de tulear, batuffoli bianchi che scorrazzavano in tutta la contrada. Come ogni uomo di campagna, sapeva che per una guardia efficace ad un cane imponente, il braccio, ne va affiancato uno piccolo e nervoso, la mente. Alla villa erano associate le stalle, dove non mancava mai una mucca col vitello, e i cavalli che erano la passione del fratello. Capre e galline, vigna , olivi e orto completavano l'insediamento, il tutto governato da Carlino, il padre settantenne, che ne veniva piedi da Genzano vecchia tutti i giorni, l'antico bracciante che si beava dei possedimenti agricoli del figlio. Michele, quando abolirono la leva obbligatoria, mi fece prendere in un sol colpo cittadinanza e patente grazie ad un suo inquilino di Via Nazionale, alto funzionario alla Questura di Roma, e mi (si) regalò un piccolo pick up Peugeot, e a volte mi capitava di dare al vecchietto un passaggio di ritorno a Genzano. Ma quei due chilometri erano un'impresa:  in confronto a Carlino persino Michele olezzava Chanel n 5, e l'arzillo vecchietto inoltre era ubriaco fradicio già dalle nove di mattina e blaterava incessantemente in un incomprensibile dialetto tutto il tempo.






Uomo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, Giacinto coltiva da sempre passioni snob, come lo sci d'acqua praticato sulle dolci acque del Lago di Castegandolfo o le 500 (quelle d'epoca) da corsa, con cui gareggiava nei circuiti amatoriali, il rombo tonante dei motori che eccheggiava per tutta la contrada nei giorni del tuning dei piccoli mostri meccanici, gli  enormi motori che traboccavano dal cofano posteriore e le gomme extralarge da gokart. . Il suo mestiere e i suoi hobbies lo mettevano sorpendentemente a contatto con ogni genere di celebrità o, più banalmente, con gli strati più elevati della popolazione limitrofa. Da lui erano passati Timothy Leary, Vasco, Troisi (che stranamente bucava uno spettacolo su due quando era in zona), semisvenuti sui meravigliosi Qom di seta che adornavano il suo bel salone rustico a tre livelli, poichè quella era la sua copertura, grazie alla moglie trasfuga angloiraniana, "commerciante di tappeti e pietre preziose", così diceva a chi non lo conosceva. Su quei bei tappeti semisvenivamo anche io e Michele qualche volta.
Due figlioli, marmocchietti biondi cogli occhi azzurri come il papà e la mamma, donna evidentemente di schiatta più grecoalessandrina che asiatica, imperversavano tutta l'estate a piedi nudi nei campi, fino a noi, Tiziano abbronzato, solare, spalle larghe,  apollineo, e Valentino, d'aspetto pallido malaticcio e cupo, cane omosessuale ammazzapecore sin da bambino. Giacinto era socio e sodale di Michele per ovvi motivi, ma li legava un sentimento fortemente ambivalente, come capita spesso tra gangster. I loro traffici erano un enigma persino per me che lì abitavo. Per due o tre volte, in quegli anni, ricordo passaggi di elicotteri sulla pineta che si chiudevano col lancio di fagotti e loro successivo recupero da parte dei due ragazzi, alcune ore dopo, ovvia cautela. Clienti di Giacinto, ragazzotti alquanto bulleschi a bordo di motorini smarmittati, frequentavano a tratti la villa dove stava Michele, che a volte ne sembrava spaventato, anche se con me non lo ammise mai. La cosa finì quando da lui si installarono i primi (benedetti !) rumeni.
Devo dire, a onor suo, che mi ha sempre tenuto a distanza dalla zona più oscura della sua vita e dei suoi affari, con una delicatezza che non mancavo di apprezzare. Per un'estate soggiornarono da lui due fratelli napoletani, l'uno, il più giovane, muratore rifinito, apparentemente con lo scopo di effettuare lavori in villa e cercarne nella zona. In realtà, scoprii più tardi, deputato a tenere d'occhio il più anziano, un verace, alto e bruno, occhi verdi sognanti ed animo romantico e sentimentale, bellissima voce, donne e figli che telefonavano ad ogni ora, una malinconia indicibile nello sguardo, apparentemente il  manovale svogliato del fratello, con cui era evidente lo scambio di correnti di tensione reciproca, disapprovazione, delusione, rivendicazioni antiche. Non si allontanavano quasi mai dalle ville, benchè motorizzati del camioncino di Ciro, il più piccolo. Mangiavamo insieme  e insieme bevevamo whisky on the rocks, parlando della vita e dell'amore nelle sere estive, al fresco sotto il pergolato, lavoravamo insieme nei campi ed alle case, li aiutavo volentieri, la loro compagnia era piacevole come solo con i napoletani  può essere,  soprattutto quella di Francesco, il più grande, uomo profondo, sofisticato, poetico, un principe quasi analfabeta ma un principe, anche questo così tipico di quella città. Alla fine della stagione passò a salutarmi, vado via, grazie di tutto, piacere di averti conosciuto. Ma ci vediamo ancora, magari ti vengo a trovare, gli feci, un pò sorpreso. Non credo, mi disse, io vado là. Indicava le luci soffuse nel crepuscolo del Supercarcere di Velletri, isolate nella pianura circostante, un lago di buio tutt'intorno. Ero ammutolito, non sapevo che dire. Sarà lunga, continuò, sai, omicidio plurimo e atreccose...Ero certo più imbarazzato io di  lui, che doveva essere ormai a suo agio nella posizione del camorrista latitante. Sono stanco di fuggire, disse infine. Mi voglio fermare.

Quell'accidenti di Michele.


Nel complesso Giacinto non era malvisto in Contrada:  era un vicino onesto, sempre disponibile a contribuire ai lavori ed alle manutenzioni necessarie della zona, giocoforza a carico dei proprietari delle case e dei fondi, data la cronica latitanza del Comune, della provincia, dei fornitori di utilities. Non era inconsueto vederlo riempire le buche di materiale di risulta, o riparare col bitume l'Appia Antica. Provvedemmo insieme all'intervento più importante per la vita della contrada, raccolti attorno ai due capofila, lui e Michele: stendere un tubo per l'acqua lungo tutta la vicinale per poter finalmente attingere al Simbrivio e liberarci della cronica precarietà idrica velletrana. Last but not least la sua influenza rendeva l'area straordinariamente sicura, il tasso di furti nelle ville era irrisorio, il vandalismo era del tutto sconosciuto nonostante l'isolamento: tutto voleva Giacinto fuorchè attirare l'attenzione delle forze dell'ordine sul suo territorio, che era perciò il più tranquillo di tutta Velletri.

  Dopo trent'anni di onorata carriera tutta al disotto dei radar della giustizia, Giacinto aveva subìto l'onta della sua prima condanna, a causa di cinquanta kili di hashish trovati sepolti nel terreno di un confinante e a lui ricondotti da una paziente indagine fatta di appostamenti e intercettazioni ambientali che avevano messo in subbuglio un vicinato costituito di famiglie in casette  isolate, telefonate allarmate che segnalavano  una notte si e una no le targhe delle auto dei poliziotti in incognito ai loro colleghi del territorio. Michele aveva quindi organizzato il sostegno alla temporanea "vedova" e ai bimbi, visto che l'evento del tutto inaspettato aveva colto la famigliola impreparata e priva di contanti. I contradaioli avevano accolto l'iniziativa con un certo fondato scetticismo, e come spesso accade, il bene fatto da Michi non aveva suscitato in Giacinto tutta la gratitudine che avrebbe meritato e avrebbe invece di lì in poi alimentato un sordo rancore nell'Unno.
La cui successiva disavventura giudiziaria non aveva, in effetti, suscitato più alcuna sorpesa o simpatia nel regno del Principe delle Pettegole. Quando il fratello era stato fermato alla fonda davanti a Civitavecchia a bordo del suo yacht a vela carico di coca, e lui l'aveva seguito nel solito Supercarcere di Velletri, ancora, ormai una seconda casa, nessuno si era mosso. La moglie aveva ovviato vendendo le stalle riattate a casolare a due vecchietti romani e l'unico spunto di blanda perplessità l'aveva suscitato  la precoce ricomparsa in contrada, da lì a pochi anni, del Tartaro, ormai incanutito e sdentato. Il pensiero comune era che avesse spifferato su qualche complice, ottenendo benefici.
Siccome il lupo perde il pelo, eccetera, il suo ritorno era stato caratterizzato da una ripresa del traffico incongruo sulla vicinale, con viandanti smarriti, nuovi clienti, che suonavano fino alle due di notte  anche da noi cercando Giacinto, "checc'è Ggiacindo?" , niente a che vedere con gli antichi raffinati frequentatori della bella villa ma d'altronde ricostruire una carriera comporta un inevitabile downgrade, e la necessità finanziariamente comprensibile di riprendere da prodotti ( e clientela) più casarecci.

L'ultima volta che lo incontrai, Giacinto commentò la scomparsa di Michele " Hai visto Michele sì? Chissaccheffarà mò, all'Inferno!" La sua sghignazzata viscosa,  gengive scoperte nel bosco di peli biancobiondi macchiati di nicotina, mentre si allontanava sgommando pietruzze dappertutto colle gomme rinforzate del suo SUV, è il ricordo più nitido che mi rimane di lui.


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