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Friday, October 18, 2013

Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 2


Ernesto

Da un capo all'altro della contrada, Ovest: Ernesto. Capelli neri e carnagione pallida, lineamenti regolari, anonimi, bassino e smilzo, occhialuto,  l'icona vivente del nerd, mite, sommesso, normale all'apparenza quanto più laterale e non conforme nella sostanza del suo minuscolo essere. Diplomato ISEF, aveva lavorato come insegnante di Educazione Fisica ( così ancora si chiamava la ginnastica all'epoca) nelle scuole medie di Genzano e Velletri per anni. Era sposato con un'insegnante di Lettere, che alla morte del padre aveva ereditato una manciata di ettari di vigna e oliveto ai confini occidentali della contrada, comprensivi di un vecchio ma bellissimo casale. Ernesto, figlio e nipote e pronipote eccetera di una schiatta interminabile di contadini della Valle Latina, Valmontone, Cave, Palestrina, aveva preso una decisione incomprensibile ed aveva mollato il lavoro sicuro con lo Stato per seguire il suo istinto agricolo e si era dedicato interamente alla terra. Dei due  era la moglie che tutte le mattine usciva da sotto il viale di lecci centenari colla loro utilitaria per andare nel mondo. Lui, in piedi prima dell'alba, le aveva preparato la colazione ed era già nei campi, restava nel suo paradiso, eremita volontario, solitudine appena alleviata da Internet e dai contatti elettronici quotidiani coi compagni di Lega Ambiente, impegnato com'era a sorvegliare dall'alto del suo colle  l'ecologia della Contrada, dai piccoli ulteriori abusi edilizi nel mare magnum dei senza licenza, al taglio illegale di essenze protette, agli scarichi non autorizzati, ai cacciatori fuori distanza ed alle discariche improvvisate sui cigli dei fossi. 
Si dava del tu con i sindaci della zona, Velletri, Genzano, Nemi, perché era per loro un incubo, un soggetto enigmatico e pericoloso spinto da motivazioni a loro incomprensibili  che andava blandito con circospezione, tenuto in considerazione, invitato ad ogni convegno, cooptato in ogni comitato o commissione possibile onde tenerlo d'occhio. Primo firmatario di innumerevoli petizioni, presenzialista di banchetti di propaganda, festival politici e puliamomondi, era il campione della legge Bassanini, metri cubi di delibere, determine e regolamenti  comunali che la PA era costretta a fornirgli per legge e che analizzava sera dopo sera pervicacemente, meticolosamente, sempre ostilmente teso a trovare falle legali, bugs burocratici, rischi per la salute e la natura (n.b. che per ragioni ideologiche non possedeva la televisione). Era per le amministrazioni locali circostanti un hooligan ambientale, una mina vagante che poteva in qualunque momento scoppiare e tenere in scacco lottizzazioni, autorizzazioni industriali e artigianali, progetti di sviluppo di qualunque genere, appellandosi ai cento cavilli che l'incredibile legislazione italiana fornisce ai nimby di professione. Ogni protesta lo vedeva in prima fila e teneva duro per anni, contro l'Appia bis, contro l'Inceneritore dei Castelli, contro il raddoppio della Pontina, contro l'autostrada litoranea, contro tutto. Un grandissimo rompicoglioni. 

Geneticamente devoto  al bio, professionalmente combatteva come un leoncino la sua personale battaglia per trasformare la piccola tenuta secondo un modello biodinamico, impresa improba per la dimensione del fondo e per i limiti strutturali di manodopera disponibile ( lui da solo ) e l'asprezza della terra collinare, povera, dilavata, arida. Il limite più grave consisteva nel fatto che fondamentalmente era un contadino, per nulla portato all'allevamento, mentre essenziale alla chiusura del cerchio steineriano è l'apporto di nitrati e fosfati come gentilmente velocemente prodotti, a partire dal materiale vegetale, dagli organismi animali; in parole povere serve merda. Per produrre la quale, anche con l'utilizzo di animali energeticamente efficienti come il pollame, servono spazi ( di cui Ernesto non disponeva) e lavoro ( come sopra), per cui come uno stercorario umano, si arrabattava a raccoglierne in giro, carriole e carriole fumanti nelle fredde mattine d'inverno scaricate nel carrello del cingolato e portate a riposare nel suo cumulo, da Giacinto, da Michele nelle stagioni in cui teneva un vitello, dalla porcilaia dei rumeni, da Antonio l'anziano pastore a San Gennaro, cui d'inverno consentiva il pascolo nel suo fondo. Non alle capre, però, bestie capatosta incorreggibili, capaci di arrampicarsi sugli olivi come scimmie distruggendone la chioma e di rosicchiare le cortecce degli alberi da frutta come castori: Antonio ammetteva a mezza bocca che, preso dall'ira per la loro testardaggine, a lui stesso era capitato di esagerare col bastone e spaccarne irrimediabilmente qualcuna, di quelle teste toste cornute, "sò stupide", si giustificava, "nun capiscono gnente". Ipse dixit, chi ero io per obiettare. Michi comprava regolarmente da lui ricotta e pecorino fatti in casa, senz'altro deliziosi ma personalmente preferivo passare, viste le condizioni igieniche alquanto opinabili del suo "laboratorio", e mantenermi sul consumo dell'occasionale abbacchio o capretto non ancora marcato, macellato abusivamente, la cottura sana tutto, o quasi. 
Il vecchio marpione non  sarebbe riuscito a nemmeno a sopravvivere si fosse attenuto alle mille norme che in Italia imperversano su tutto agricoltura e allevamento compresi, ogni cavillo un pretesto per un balzello, e tra le quali si districava con laboriosa fatica, lui, a malapena in grado di leggere e scrivere. Da italian illegal breeder, invece, viveva benissimo, nella sua bella villetta accanto all'ovile, e come lui un esercito di macellatori in proprio, casari in nero o distillatori fai da te, illegal farmers di cui Michele era fedele cliente come milioni di anarchici cittadini italiani per i quali è quasi un perverso piacere farsi complici del nero economico, tutto fuorchè piegarsi a uno Stato inefficente e sordo, più delinquente di loro, ed infinitamente più avido, una mostruosità feudalborbonica grazie alla quale un animale collettivo di milioni di vampiri , dipendenti statali inutili, politici di carriera, burocrati infingardi, vivono alle spalle di una delle comunità nazionali più operose e creative del mondo, succhiandone via la vita, indebolandone il tessuto sociale fino a stracciarlo. Chissà se finirà mai, se non con la morte dell'organismo parassitato e allora finalmente anche loro moriranno, mai abbastanza male e sempre troppo tardi.

Un sisifo instancabile di  pregiato materiale organico; ma  Ernesto si distingueva anche  per la dedizione con cui studiava e preparava da solo i fitofarmaci alternativi per le sue colture, troppo povero com'era per l'acquisto dei servizi delle aziende produttrici di insetti utili e trappole ai feromoni. Il suo orto, ordinato e rigoglioso come un giardino all'italiana,  era costellato  di barattoli colmi di birra e limacce morte: almeno le povere bestie spiravano contente (le lumache col guscio, raccolte a mano, finivano in pentola con aglio, mentuccia e pomodoro: buonissime!). I suoi ulivi erano decorati come alberi di Natale di bottiglie ahimè di plastica, piene del liquido alchemico proteico  giallastro in cui affogavano le odiate mosche. Rame ed  equiseto per i funghi, macerato d'ortica per gli afidi, un misto dei due per le maledette cocciniglie che subivano anche l'attacco con spazzole di ferro, delicato lucidare tronchi e rami ore ed ore prima, vigoroso spruzzare sapone nero per la fumaggine poi, che coraggio. In primavera, quando l'assalto agli esuberanti pests che affliggevano le sue colture era più disperato, non ci si poteva avvicinare al magazzino dove lavorava i suoi intrugli: l'odore del macerato di ortica è semplicemente indescrivibile ed associato a quello di equiseto diventa straziante. Credo che afidi e ragnetti bianchi scappassero più che altro per la puzza.

Benchè il grosso delle sue entrate lo facesse coll'olio da olive biologiche spremuto a freddo a pietra, ed il vino naturale -che produceva già in tempi non sospetti, oggi è una mania- così buoni da poter essere ogni anno interamente commercializzati in una cerchia fissa di amici e conoscenti affezionati- era tuttavia sempre infatuato di qualche nuovissimo astruso prodotto con cui poter sfondare in un mercato più ampio- non credo ci sperasse veramente ma era fissato: un anno era la composta di corbezzoli, un altro i marroni sciroppati al rhum, un altro ancora il lemon curd biodinamico, si affaccendava come un furetto coi suoi barattoli, le etichette, l'autoclave, senza mai  addivenire ad un risultato commercialmente sensato. Ce n'era sempre uno nuovo, dei suoi prodotti, allo stand di Legambiente della festa dell'Unità e della festa di  Liberazione e della festa di Rinascita, quest'ultima suppongo un unicum di  Genzano, dove credo si vendesse la maggior parte delle copie di quel periodico storico ormai quasi dimenticato: girava anche a casa di Michele che leggeva più volentieri, però, il suo Manifesto.







Sperimentava anche, tuttavia, in un altro campo, ancora più esoterico. Appassionato da sempre di erboristeria, usava per sè e la sua famiglia, compresa una bimba arrivata in quegli anni, di tutte le erbe disponibili nel suo orto e nei suoi campi, ed erano davvero tante. Le sue siepi miste erano  piene di biancospini e sambuchi e caprifogli e spincervini etc, il suo giardino di aromatiche era il più completo che si potesse immaginare, non solo i soliti rosmarino e lavanda e crespolina, ma le angeliche, i levistici, le olmarie, le saponarie,  gli issopi, le melisse, le altee e le millefoglie - che aggiungeva ben sminuzzate al cumulo per accelerarne la maturazione-  un'aiuola interamente riservata all'aloe: un'enciclopedia. Per fortuna c'era la moglie a frenarlo col suo dolce buon senso di professoressa e a portare la piccola dal pediatra regolarmente, fosse stato per lui l'avrebbe curata solo con cataplasmi e decotti e mucillagini. Che ci si poteva aspettare da Ernesto, vegano, animalista, fanatico della terza metrica: per fortuna c'era lei, benedetta donna, a preparare gli hamburger alla bambina e a darle gli antibiotici. Da lui sopportava tutto con pazienza ma sulla figlia non transigeva.
Ma fosse stato solo questo: in effetti negli anni la sua ricerca si era fatta più, come dire, tangenziale,ed aveva virato decisamente in una direzione smart. L'unico vizio che gli si conosceva era sempre stato il fumo, inteso come maria, ed era conosciuto nel circondario come spietato guerrilla gardener. Piantava un pò dappertutto, nei fossi e negli incolti circostanti, tranne che nel suo fondo, naturalmente. Ricordo che un anno un vicino, piccolo imprenditore meccanico, inventore di suo, fratello di un ingegnere della NASA, un altro caso psichiatrico, sicuramente un Asperger, benchè socialmente funzionante- persino Michi lo considerava strano- passando il trattore nel suo noccioleto aveva scoperto quattro rigogliose piantine alte già un metro. Apriti cielo aveva subito chiamato la forza pubblica, con intervento di una pattuglia di annoiati carabinieri e di una volante, alquanto più decisi, che avevano improvvisato un inutile e fastidioso posto di blocco sulla vicinale irritando un pò tutti. Ernesto si era vendicato l'anno dopo, facendogliene trovare una decina, delle belle pianticelle, sparse nella sua proprietà, nascoste ovunque. Era un gioco da ragazzi, penetrare il suo fondo, considerando che Tamburrini viveva e lavorava a Roma e veniva un paio di volte al mese per rilassarsi e per le manutenzioni. Lo spione aveva capito ed aveva estirpato le pianticelle in proprio, astenendosi dall'allertare la PS: una chiamata all'anno per guerrilla gardening sarebbe sembrata eccessiva, a rischio di attirare l'attenzione proprio sul chiamante, magari sulla famiglia, sul figlio studente di psicologia, medium e sensitivo nonchè abilissimo geek- se non hacker. Personaggio imbarazzante, Stefano Tamburrini, fortissimo telepatico sin  da piccolo, cosa che gli aveva all'inzio creato  la nomea di bambino difficile, per come reagiva a volte aggressivamente con persone che lui sentiva- sapeva- coltivare pensieri moti dell'anima di malvagità magari anche  ben nascosta. Parlare con lui era terribilmente stressante, era sempre avanti di un passo o due nella conversazione, ribatteva alle risposte che non eri ancora riuscito a pronunciare, per quanto ormai fosse consapevole della sua diversità e si sforzasse di celare la sua impazienza al non essere seguito, e sopportasse con filosofia la nostra lenta e ottusa normalità

Tutti a Contrada Fornaci, gli strani  della Provincia.

Ma mentre la coltura della  maria era una attività strettamente privata, un segreto di Pulcinella in realtà ma sul quale nessuno e nemmeno lui aveva mai commentato, Ernesto ad un certo punto si era messo a raccogliere e a provare con i suoi amici tutta una serie di vegetali di cui io stesso non avevo mai sentito parlare: certi fiori arancioni, una bordura anche molto bella da vedere, finivano nelle pipe essicati nature o consumati nello yoghurt -autoprodotto- sotto forma di un estratto nero, resinoso; aveva lavorato a lungo non è chiaro con quali risultati sull'estrazione del DMT dalla canna d'india e dalla scagliola, onnipresenti nei fossi della contrada; una volta coll'alambicco della grappa illegale che era una sua specialità aveva preparato l'assenzio colle cime delle molte artemisie che ingentilivano uno dei suoi viali coll'argento del loro bel fogliame, unite agli altri ingredienti di prassi, semi di anice e finocchio, issopo, menta e melissa per il colore,coriandolo etc... liquore di elevatissima gradazione, credo fosse oltre i 60°. Lo provammo da lui anche io e Michele, una memorabile serata a cena  durante la quale bevemmo la sostanza, di un bellissimo verde smeraldo, con tutto il rituale della zolletta di zucchero e dell'acqua gelata, che la rendeva lattignosa, con effetti a dir poco allucinatori, non so se a causa del velenoso thurione o del diabolico contenuto alcoolico dell'amarissimo preparato. Nutro il credo fondato sospetto che lo avesse arricchito col papavero da oppio, che si procurava dai fioristi, che inconsapevolmente usano le belle capsule per le loro composizioni di fiori secchi. Mai più: il mal di testa del giorno dopo fu anch'esso allucinante, siamo stati male per giorni.

Per cui quando mi propose la datura gentilmente declinai; ma ero con lui la volta che quasi soffocò per la nausea dopo aver masticato come da manuale alcune centinaia di semi di ipomea, un pugnetto. Si convertì successivamente all'assunzione per via anale: io trasecolai, come fai? lo incorporo in supposte di glicerina, mi disse. oddio ma quante te ne servono ?? cinque, sei, glissò un pò imbarazzato. 
Tutti gli anni produceva qualche chilo di lactucarium, di cui era entusiasta propugnatore, per l'insonnia, per l'ansia, per il mal di testa, per la tosse secca, l'avrebbe somministrato  anche a sua figlia se la madre non si fosse fieramente opposta. Lo fumava, lo scioglieva nel tè, lo incapsulava in compresse; l'ho consumato anch'io senza riuscirne a farmene convinto, una sostanza blanda a voler essere buoni, nonostante il nome popolare di "oppio di lattuga" prefiguri chissà quali effetti. Lo vende tuttora su Internet, nelle chat degli psiconauti schizzati come lui, pacchettini sottovuoto da cinque e dieci grammi, "garantito biologico", come se l'estratto di lattuga virosa e lattuga serriola raccolte nei prati  potesse essere altrimenti. 




Il  sogno irrealizzato più vicino al suo cuore, però, il progetto che non ha mai smesso di accarezzare, ininterrottamente, attorno al quale era organizzata quasi tutta la sua attività militante che non fosse semplicemente contro, la sua vera ossessione, un'ala intera della sua vasta biblioteca ad esso dedicata, il wallpaper del suo desktop, lo screensaver del suo computer, una religione che condivideva con una manciata fedelissima di eccentrici praticanti, una vecchia professoressa danese, un architetto locale, il libraio del paese, i trekker del CAI- era uno solo: far dichiarare il Bacino del Lago di Nemi  Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Il piccolo agguerrito e composito gruppo aveva preparato una prima documentatissima, dettagliatissima richiesta con un lavorìo durato anni che aveva coinvolto comuni, soprintendenze, università, patrocinatori privati: non era arrivata neanche ad una fase di valutazione, i meccanismi di protezione e tutela di un ambiente troppo antropizzato non erano stati giudicati sufficienti già a livello di Ministero. E tuttavia non si sono ancora arresi, tampinano ancora i sindaci a gli assessori, sfornano ebook e guide self publishing sui sentieri e i piccoli tesori nascosti del cupo vulcano spento, il Tempio di Diana, la Villa di Cesare, il romitorio di San Michele, l'Emissario romano. 
Ultimo parto della loro febbrile immaginazione, in liaison con un pugno di altri pazzi culturalfuriosi,  un Festival del Ramo d'Oro, - nome ispirato alla sanguinosa leggenda del sacerdote schiavo, cui era regalata la libertà all'uccisione del suo predecessore fino alla sua propria morte per mano del suo successore-  la cui ultima edizione a me nota era dedicata nientemeno che a CALIGOLA nella celebrazione del duemillesimo anniversario della sua nascita. 


Solo in Italia. Solo a Contrada Fornaci.


 

Thursday, October 3, 2013




Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 1

E' curioso come in campagna si trovi una concentrazione di eccentrici per kmq MOLTO più alta che in città, nonostante la diversa densità abitativa. Questa era la mia netta impressione i primi anni che abitavo da Michele, ma forse ciò vale solo per Contrada Fornaci, la mia esperienza di campagnoli è limitata ai suoi abitanti. Forse è l'acqua, che dalle condotte di Poggidoro cola nelle ubiquitarie cisterne appena un rigagnolo inquinato di arsenico e colibatteri fecali, l'acquedotto di Velletri uno dei più estesi e bucherellati d'Italia a servire le diecimila case abusive che ne costellano il ridente territorio. Forse l'aria secca di questo costone roccioso, di qualche grado costantemente più calda che a Genzano ( tre km in linea d'aria )  tant'è protetto dai venti settentrionali, arido, nonostante appartenga territorialmente al Comune di Velletri (statisticamente uno dei più piovosi d'Italia, media annuale 1550 mm, data la sua posizione alla confluenza di due catene montuose, i Colli Albani e i Monti Lepini, a due passi dal mare)- tutta l'umidità che risale dalla Pianura Pontina si condensa nella stretta valle velletrana, effetto stau da manuale.
 Ma non a Contrada Fornaci, che pure non deriva il  nome dalle sue condizioni microclimatiche eccezionali che ne fanno un mondo a parte, nascosto alla vista dei passanti sull'Appia Nuova e l'Appia Vecchia come alla meteorologia locale, e pure un buco nero dei segnali radio televisivi e di telefonia mobile causa la sua situazione proprio sotto uno dei più importanti ripetitori dei Castelli Romani e del Pontino settentrionale, e pure sismicamente del tutto immune agli sciami sismici caratteristici dell'area vulcanica dei Castelli! forse a causa del suo fondo di durissima pietra lavica. Contrada Fornaci è probabilmente un toponimo storico, del genere derivato dalle antiche attività che vi si svolgevano. Cocci di ogni genere, manici d'anfora, antefisse sbreccate, laterizi completi di bolli , decorazioni fittili amputate di quasi ogni ornamentazione, scarti delle lavorazioni di secoli, riaffiorano ad ogni sarchiatura di vigna, incessantemente, come il ribollire di un soffione sottomarino. Una tozza struttura in opus incerto torreggia sulla contrada, una cisterna? Le vigne sono punteggiate qua e là dai grossi basoli grigi della strada romana che i contadini genzanesi della riforma agraria subito dopo la guerra avevano ricomposto, in parte per orgoglio della loro ascendenza,   in parte per discendere più facilmente ai Landi e ai Colli di Cicerone e a Marcavallo e ai Muti ai loro appezzamenti. Un piccolo pezzo è ancora lì, ancora visibile, a dare il nome all'unica strada della contrada, Appia Antica, basolato e crepidine di tufo a impreziosire gli ingressi delle  ville sontuose al sommo capo del suo percorso all'incrocio con la SS 7.
   

  Forse non era  la vera Appia Antica, ma chissà quale strada di servizio, in un'area densamente abitata anche allora, tra il Palazzo degli Antonini, appena oltre il colle di Montecagnoletto, l'anfiteatro di Commodo di Gladiatoriana memoria a cinquecento metri dalla Contrada, a Nord; e a  Sud  gli imponenti ruderi del Castello di san Gennaro, villa agricola tardo romana divenuta poi una delle fortezze chiave del sistema difensivo della Valle Latina, contese per secoli tra gli Annibaldi e i Savelli e i Colonna e tutta quella marmaglia di rissosi e sanguinari nobilastri romani.
Fantasmi si insediano più comodamente in queste case che in quelle di ogni altra zona io abbia conosciuto: una succursale afosa della Scozia. Spiritelli ne infestano i prati di notte; fuochi fatui che farebbero la gioia degli ufologi e di Mistero rivaleggiano con le lucciole, fossi profondi come canyon fitti di querce e lecci secolari, tane d'istrici e di volpi, faine e donnole che ne devastano i pollai, saettoni e colubri giallo verdi grossi come un braccio e lunghi due metri che si accoppiano nel sole di giugno sui viottoli arsi, intessendosi in trecce  pulsanti di due tre quattro serpenti  soffiando come gatti, urla agghiaccianti di civette e barbagianni che squarciano il buio estate e inverno: tutto ciò non mi sembra basti a giustificare l'endemica follia e la tendenza alla devianza degli abitanti, indigeni e no, di questa landa.
Una mappa:

Giacinto

a Est sud est la casa di Giacinto, storico spacciatore di Genzano, biondo, baffi e barba, occhiacci slavi, un Galata burino e arruffato concentrato in uno scarso metro e sessanta di altezza. Fuori dell'imponente cancello automatico, la cui apertura e chiusura è udibile a chilometri di distanza, nè nome nè cognome ma una targa che è tutto un programma: Frà Cazzo da Velletri. Da piccolo spacciatore del muretto, Giaci era divenuto col tempo, insieme al fratello, un grosso movimentatore di roba. Aveva costruito una villa, abusiva, di gusto sorprendente, alle Fornaci, perchè zona vicino al paese ma sufficientemente discreta, e oltre alle sue attività istituzionali vi allevava cani di razza, mastini napoletani e cani corsi e piccoli coton de tulear, batuffoli bianchi che scorrazzavano in tutta la contrada. Come ogni uomo di campagna, sapeva che per una guardia efficace ad un cane imponente, il braccio, ne va affiancato uno piccolo e nervoso, la mente. Alla villa erano associate le stalle, dove non mancava mai una mucca col vitello, e i cavalli che erano la passione del fratello. Capre e galline, vigna , olivi e orto completavano l'insediamento, il tutto governato da Carlino, il padre settantenne, che ne veniva piedi da Genzano vecchia tutti i giorni, l'antico bracciante che si beava dei possedimenti agricoli del figlio. Michele, quando abolirono la leva obbligatoria, mi fece prendere in un sol colpo cittadinanza e patente grazie ad un suo inquilino di Via Nazionale, alto funzionario alla Questura di Roma, e mi (si) regalò un piccolo pick up Peugeot, e a volte mi capitava di dare al vecchietto un passaggio di ritorno a Genzano. Ma quei due chilometri erano un'impresa:  in confronto a Carlino persino Michele olezzava Chanel n 5, e l'arzillo vecchietto inoltre era ubriaco fradicio già dalle nove di mattina e blaterava incessantemente in un incomprensibile dialetto tutto il tempo.






Uomo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, Giacinto coltiva da sempre passioni snob, come lo sci d'acqua praticato sulle dolci acque del Lago di Castegandolfo o le 500 (quelle d'epoca) da corsa, con cui gareggiava nei circuiti amatoriali, il rombo tonante dei motori che eccheggiava per tutta la contrada nei giorni del tuning dei piccoli mostri meccanici, gli  enormi motori che traboccavano dal cofano posteriore e le gomme extralarge da gokart. . Il suo mestiere e i suoi hobbies lo mettevano sorpendentemente a contatto con ogni genere di celebrità o, più banalmente, con gli strati più elevati della popolazione limitrofa. Da lui erano passati Timothy Leary, Vasco, Troisi (che stranamente bucava uno spettacolo su due quando era in zona), semisvenuti sui meravigliosi Qom di seta che adornavano il suo bel salone rustico a tre livelli, poichè quella era la sua copertura, grazie alla moglie trasfuga angloiraniana, "commerciante di tappeti e pietre preziose", così diceva a chi non lo conosceva. Su quei bei tappeti semisvenivamo anche io e Michele qualche volta.
Due figlioli, marmocchietti biondi cogli occhi azzurri come il papà e la mamma, donna evidentemente di schiatta più grecoalessandrina che asiatica, imperversavano tutta l'estate a piedi nudi nei campi, fino a noi, Tiziano abbronzato, solare, spalle larghe,  apollineo, e Valentino, d'aspetto pallido malaticcio e cupo, cane omosessuale ammazzapecore sin da bambino. Giacinto era socio e sodale di Michele per ovvi motivi, ma li legava un sentimento fortemente ambivalente, come capita spesso tra gangster. I loro traffici erano un enigma persino per me che lì abitavo. Per due o tre volte, in quegli anni, ricordo passaggi di elicotteri sulla pineta che si chiudevano col lancio di fagotti e loro successivo recupero da parte dei due ragazzi, alcune ore dopo, ovvia cautela. Clienti di Giacinto, ragazzotti alquanto bulleschi a bordo di motorini smarmittati, frequentavano a tratti la villa dove stava Michele, che a volte ne sembrava spaventato, anche se con me non lo ammise mai. La cosa finì quando da lui si installarono i primi (benedetti !) rumeni.
Devo dire, a onor suo, che mi ha sempre tenuto a distanza dalla zona più oscura della sua vita e dei suoi affari, con una delicatezza che non mancavo di apprezzare. Per un'estate soggiornarono da lui due fratelli napoletani, l'uno, il più giovane, muratore rifinito, apparentemente con lo scopo di effettuare lavori in villa e cercarne nella zona. In realtà, scoprii più tardi, deputato a tenere d'occhio il più anziano, un verace, alto e bruno, occhi verdi sognanti ed animo romantico e sentimentale, bellissima voce, donne e figli che telefonavano ad ogni ora, una malinconia indicibile nello sguardo, apparentemente il  manovale svogliato del fratello, con cui era evidente lo scambio di correnti di tensione reciproca, disapprovazione, delusione, rivendicazioni antiche. Non si allontanavano quasi mai dalle ville, benchè motorizzati del camioncino di Ciro, il più piccolo. Mangiavamo insieme  e insieme bevevamo whisky on the rocks, parlando della vita e dell'amore nelle sere estive, al fresco sotto il pergolato, lavoravamo insieme nei campi ed alle case, li aiutavo volentieri, la loro compagnia era piacevole come solo con i napoletani  può essere,  soprattutto quella di Francesco, il più grande, uomo profondo, sofisticato, poetico, un principe quasi analfabeta ma un principe, anche questo così tipico di quella città. Alla fine della stagione passò a salutarmi, vado via, grazie di tutto, piacere di averti conosciuto. Ma ci vediamo ancora, magari ti vengo a trovare, gli feci, un pò sorpreso. Non credo, mi disse, io vado là. Indicava le luci soffuse nel crepuscolo del Supercarcere di Velletri, isolate nella pianura circostante, un lago di buio tutt'intorno. Ero ammutolito, non sapevo che dire. Sarà lunga, continuò, sai, omicidio plurimo e atreccose...Ero certo più imbarazzato io di  lui, che doveva essere ormai a suo agio nella posizione del camorrista latitante. Sono stanco di fuggire, disse infine. Mi voglio fermare.

Quell'accidenti di Michele.


Nel complesso Giacinto non era malvisto in Contrada:  era un vicino onesto, sempre disponibile a contribuire ai lavori ed alle manutenzioni necessarie della zona, giocoforza a carico dei proprietari delle case e dei fondi, data la cronica latitanza del Comune, della provincia, dei fornitori di utilities. Non era inconsueto vederlo riempire le buche di materiale di risulta, o riparare col bitume l'Appia Antica. Provvedemmo insieme all'intervento più importante per la vita della contrada, raccolti attorno ai due capofila, lui e Michele: stendere un tubo per l'acqua lungo tutta la vicinale per poter finalmente attingere al Simbrivio e liberarci della cronica precarietà idrica velletrana. Last but not least la sua influenza rendeva l'area straordinariamente sicura, il tasso di furti nelle ville era irrisorio, il vandalismo era del tutto sconosciuto nonostante l'isolamento: tutto voleva Giacinto fuorchè attirare l'attenzione delle forze dell'ordine sul suo territorio, che era perciò il più tranquillo di tutta Velletri.

  Dopo trent'anni di onorata carriera tutta al disotto dei radar della giustizia, Giacinto aveva subìto l'onta della sua prima condanna, a causa di cinquanta kili di hashish trovati sepolti nel terreno di un confinante e a lui ricondotti da una paziente indagine fatta di appostamenti e intercettazioni ambientali che avevano messo in subbuglio un vicinato costituito di famiglie in casette  isolate, telefonate allarmate che segnalavano  una notte si e una no le targhe delle auto dei poliziotti in incognito ai loro colleghi del territorio. Michele aveva quindi organizzato il sostegno alla temporanea "vedova" e ai bimbi, visto che l'evento del tutto inaspettato aveva colto la famigliola impreparata e priva di contanti. I contradaioli avevano accolto l'iniziativa con un certo fondato scetticismo, e come spesso accade, il bene fatto da Michi non aveva suscitato in Giacinto tutta la gratitudine che avrebbe meritato e avrebbe invece di lì in poi alimentato un sordo rancore nell'Unno.
La cui successiva disavventura giudiziaria non aveva, in effetti, suscitato più alcuna sorpesa o simpatia nel regno del Principe delle Pettegole. Quando il fratello era stato fermato alla fonda davanti a Civitavecchia a bordo del suo yacht a vela carico di coca, e lui l'aveva seguito nel solito Supercarcere di Velletri, ancora, ormai una seconda casa, nessuno si era mosso. La moglie aveva ovviato vendendo le stalle riattate a casolare a due vecchietti romani e l'unico spunto di blanda perplessità l'aveva suscitato  la precoce ricomparsa in contrada, da lì a pochi anni, del Tartaro, ormai incanutito e sdentato. Il pensiero comune era che avesse spifferato su qualche complice, ottenendo benefici.
Siccome il lupo perde il pelo, eccetera, il suo ritorno era stato caratterizzato da una ripresa del traffico incongruo sulla vicinale, con viandanti smarriti, nuovi clienti, che suonavano fino alle due di notte  anche da noi cercando Giacinto, "checc'è Ggiacindo?" , niente a che vedere con gli antichi raffinati frequentatori della bella villa ma d'altronde ricostruire una carriera comporta un inevitabile downgrade, e la necessità finanziariamente comprensibile di riprendere da prodotti ( e clientela) più casarecci.

L'ultima volta che lo incontrai, Giacinto commentò la scomparsa di Michele " Hai visto Michele sì? Chissaccheffarà mò, all'Inferno!" La sua sghignazzata viscosa,  gengive scoperte nel bosco di peli biancobiondi macchiati di nicotina, mentre si allontanava sgommando pietruzze dappertutto colle gomme rinforzate del suo SUV, è il ricordo più nitido che mi rimane di lui.