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Thursday, December 26, 2013

Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 3

Il Poltergeist di Villa Controra

Non so bene se collocare il Poltergeist di Villa Controra tra le psicopatologie o le devianze: forse era un pò di tutte e due, e anche qualcosa di più e di diverso, anche considerato il tasso medio di paranormalità della zona. La storia della Villa era peculiare, forse non tale da implicare automaticamente la possessione del luogo; comunque forniva materiale ectoplasmico grezzo a volontà agli spettri che avessero voluto installarvisi.
 La struttura attuale era un curiosa costruzione in stile composito: poteva sembrare a prima vista spagnoleggiante, un patio chiuso da mura bianche rifinite di tegole in terracotta ne proteggeva alla vista l'ingresso padronale e dava su fitto parco di lecci, pini, olivi, cipressi, tuje e mimose in grandissima confusione. Alberi dai tronchi imponenti spuntavano ovunque, disputandosi ogni raggio di luce, persino dai muri stessi, scalzando i mattoni e spaccando le piastrelle colle loro radici, come se un proprietario indolente o particolarmente dendrofilo si fosse pervicacemente rifiutato di dare una regola a quel bosco selvaggio. In effetti era stato così, e da quanto mi raccontava Michele le radici delle conifere arrivavano a dissetarsi fino ai sifoni dei bagni, affacciandosi eteree nell'acqua dei water.
In realtà ad un esame più attento l'edificio rivelava un carattere di fondo più sofisticato, una vaga aria di stile Novecento più evidente dal prospetto opposto all'entrata, due ali che si slanciavano dalla collina ad abbracciare un colonnato al primo piano ed una veranda ad archi al piano inferiore. La costruzione era così mollemente adagiata sulla pendenza del colle che ciascuno dei tre piani di cui si componeva aveva una facciata sul vuoto ed un'uscita diretta sul terreno da un'altra parte, che dava su una terrazza, un'alcova, un portico rispettivamente; l'ignoto  progettista non aveva voluto farsi mancare nessuna modalità di articolazione dello spazio. Così ovunque: tetti a lastrico, balconcini, solarium, recessi interrati dalla funzione misteriosa, dependances, una grotta scavata a mano nel tufo per trenta metri di lunghezza e una diecina di profondità, ogni possibilità data dalla posizione e dalla composizione geologica dell'appezzamento era stata debitamente sfruttata: un'antologia architettonica, diciannove  vani (sette bagni) condensati in più o meno trecento metri quadri di superficie senza contare  terrazzi, verande, cortili e altri spazi all'aperto e naturalmente senza contare i locali interrati e poi magazzino, pollaio, conigliera, porcilaia per un maiale, piccionaia, cantina con botti di cemento per ventimila litri (!) etc di cui la tenuta disponeva. Ciliegina sulla torta, un campo da bocce regolamentare in mezzo alla vigna, dotato di panche di legno (ora marcio) per gli spettatori e di impianto di illuminazione, ormai arrugginito e in disuso.
Erano quasi tutti spazi minuscoli, da bambola, con altezze appena oltre i due metri in molti casi, bomboniere di stanze con tetti mansardati, con travi a vista, con archetti tra una stanza e un'altra e finestrine a doppi scuri che davano su viste mozzafiato della campagna intorno, pavimentate di vivaci piastrelle Vietri d'epoca, terza scelta, era pur sempre una villa di campagna, ma di sicuro effetto, nei colori dominanti di verde e rosa, in tono con i vetri colorati stile tiffany intorno al portone d'ingresso e col bassorilievo  in ceramica d'autore (un contadino all'ombra di un albero), posto accanto alla campana d'ottone brunito del patio, tradizionalmente destinata a chiamare al pranzo i braccianti nei campi.
Unico locale di una qualche ampiezza, doppia altezza in quasi tutta la sua estensione- eccettuata solo l'area pranzo e relativo fratino diciotto posti, drasticamente più bassa ed accessibile tramite quattro gradini-, era lo scenografico salone, venti metri lineari di vetrata ininterrotta scandita dalle bianche colonne e gloriosamente affacciata sulla Pianura Pontina ed i Monti Lepini, grande camino con un'enorme mensola di legno, arredato con tappeti persiani e divani vintage primi anni 60, (probabilmente lì dall'edificazione dell'immobile) e antiquariato hard, sedute duecentesche e simili.
Era uno scherzo di villa, una specie di voglio ma non posso edilizio, c'era tutto ma ingegnosamente realizzato col minimo delle risorse per il massimo dell'effetto. Le solenni colonne simil doriche erano in realtà vecchie robustissime tubazioni in cemento preformato, capovolte e unite alla trabeazione da un paio di bassi refrattari ben intonacati come modanatura. La mensola del camino che pareva uscita da un'unico imponente tronco era stata ottenuta montando insieme con cura alcune vecchie traversine da strada ferrata, da cui erano state ricavate anche le panche dei sedili a parete in peperino (locale, dalla cava della vicina Contrada La Pilara), nonchè gli scalini della scala coll'armatura di ferro che portava al piano di sopra ed alle camere da letto, un piccolo capolavoro di progettazione in sè, un giro di chiocciola non a chiocciola che lasciava ammirati gli architetti e i geometri in visita. Tutta la casa si reggeva su un'unica trave portante in armato, ed il resto erano pilastrini in mattoncini, leggeri, rustici, eleganti e apparentemente fragili e tuttavia misteriosamente integri nonostante la zona fosse francamente sismica. Archetti, travi, colonne e pilastrini andavano a gravare su fondamenta a sacco di antica concezione, eppure la casa, non una parete in perpendicolo ad un'altra nemmeno per sbaglio, aveva attraversato intatta sei decenni e prometteva di farsene altrettanti senza fare una piega.

E cosa dire, poi, dell'area archeologica su cui questa casa di fate era stata eretta? Era attraversata proprio dalla strada romana che tagliava , benchè parzialmente interrata, tutta la contrada. Il vecchio fattore, manovalino dodicenne all'epoca della costruzione, narrava che nello scavare il cortile, gli sterratori a giornata, non sorvegliati, avevano portato alla luce un colombario: avevano rotto tutte le anfore ed avevano aperto tutti i loculi che avevano potuto dissotterrare, razziando le monete ed i corredi funebri e tutto quello che potevano estrarre in un giorno, per poi eclissarsi per sempre. Più tardi avevano aperto un ristorante, a Lanuvio, tuttora esistente, coi proventi del furto sacrilego, dandogli l'appropriato nome de "Il Tempio". Il proprietario di allora, l'architetto Otto Stein, direttore in pensione dell'Ufficio Brevetti di Roma, aveva scaramanticamente ricoperto lo scavo, lasciato a metà dai tombaroli, ma la cosa non gli era servita granchè: lo avevano ritrovato, morto da giorni, un anno più tardi, sulla strada per la vigna; viveva da solo e all'epoca, era la fine degli anni 50, la sua era praticamente l'unica casa della contrada, tolti alcuni ruderi medievali riattati a ricovero degli animali: era ancora senz'acqua (usava un pozzo), senza luce e naturalmente senza telefono, un eremo. A perenne memento
erano rimasti, murati nel patio, alcuni pregevoli frammenti di marmi e terrecotte decorative, iscrizioni, teste di animali, foglie d'acanto stilizzate.

Al confine estremo della proprietà si stagliava, severa e solitaria come una torre di guardia, l'antica cisterna in opus incerto che definiva il colmo del colle di Contrada Fornaci.

http://us.123rf.com/400wm/400/400/eperson/eperson1201/eperson120100049/12160813-torre-selce-e-una-torre-del-12--secolo-eretta-sulla-cima-di-una-tomba-romana-sulla-via-appia-appia-a.jpg


Già al tempo in cui mi trasferii a Velletri abitava la Villa una famiglia del settentrione, che l'aveva acquistata per un tozzo di pane dall'ultimo proprietario, il Professor Aulo Enotrio Greco. Prima di loro avevano espresso interesse varie persone, sempre poi scoraggiate dall'isolamento del luogo in cui sorgeva, al centro della Contrada, immersa nei suoi quattro ettari di parco, vigna, oliveto eccetera. Il più interessato, mi raccontava Michele, era stato un ricco palazzinaro genzanese, che l'avrebbe comprata per raderla al suolo e sfruttarne la volumetria per erigere un "villone de Velletri" tutto cemento e alluminio anodizzato. Sua moglie, però, non appena aveva visitato il posto ne era fuggita inspiegabilmente atterrita, nè aveva più voluto sentir parlare dell'affare, che era stato chiuso giocoforza dopo un anno di tira e molla coi settentrionali, unici bidders rimasti. Il Professor Greco era proprio il dendrofilo impenitente di cui si parlava prima, nonchè Preside della Facoltà di Magistero della Sapienza e massimo studioso mondiale di Annibal Caro. Così mi aveva detto Michele, che pareva farne gran cosa,  ma considerando che persino il trafiletto di Wikipedia fatica a trovare un perchè a tal personaggio Caro, se lo definisco oscuro umanista rinascimentale nessuno avrà da offendersi.
 Dal punto di vista
patrimoniale, però, era più rilevante che il Professore fosse il coniuge di una Teichner, dei Teichner del caffè, donna volitiva e contadina di vocazione, viso largo e massa di ricci scuri in un'antica fotografia, era lei che aveva fatto della Villa il centro di una fiorente azienda agricola. La Signora aveva avuto marchiato a fuoco nell'anima dalle persecuzioni e dai lager patiti in famiglia e dalla fame della guerra e dopo guerra il sacro rispetto e la devozione per la terra che nutre. Poi il figlio maggiore era incappato in un incidente fiscale di grosse proporzioni colla sua torrefazione, e i Greco avevano dovuto monetizzare il patrimonio onde evitare pignoramenti e sequestri e garantire alla figlia minore, anch'essa professoressa alla Sapienza, la sua quota dell'eredità, da cui il prezzo d'affezione finale dell'ultimo passaggio di proprietà. La Signora, legata alla Villa da profondo sentimento, per una sorta di fortuna all'epoca della vendita era già scomparsa, e la Villa, deserta da anni, in stato di abbandono. Questo stato, però, più che contingente, mi sembrava fosse una caratteristica intrinseca dell'immobile, che, refrattario ad ogni intervento di ristrutturazione,  appena tirato su da una parte ricadeva dall'altra, conservando imperterrito un'aria di elegante decadenza. La Villa era sempre"da mettere a posto", eppure mai fu francamente negletta, rimanendo esteticamente sospesa in un suo limbo romantico, un poco abitata e un poco abbandonata, un qualche anelito di rifacimento sempre pendente, mai compiutamente sistemata.
Era parte del suo fascino, e della sua innegabile bellezza e di un suo intenso carattere- quasi personale- che la rendeva più presente di quanto potesse essere realisticamente una casa, in misura alquanto inquietante, eppure la situava in una dimensione sottilmente altrove, non totalmente il nostro spazio tempo consensuale e nemmeno un luogo effettivamente paranormale. Essere lì era essere almeno emotivamente in altri luoghi ed altri tempi e soprattutto non ci si sentiva mai veramente soli. Cosa ci tenesse sempre effettivamente compagnia, tanto da provare alle volte l'impulso insopprimibile di voltarsi per guardare in faccia ciò che percepivamo alle spalle, è difficile dirlo, se un ghost tradizionale personificato bene individualizzato o l'ectoplasmizzazione di una creatura più antica, un fauno o un minotauro o una ninfa dei boschi o delle acque, o un'intera collezione di quanto sopra. Qualcosa comunque c'era, c'era sempre.

Così, se da un lato era difficile staccarsene certo non doveva essere facilissimo un normale abitarci e laddove personaggi di altre epoche, lo Stein, La Signora ebrea, figure pesanti , larger than life, avevano sostenuto senza patemi l'onere e l'onore di
un luogo siffatto, addirittura al punto da contribuire a costituirne materialmente ed etericamente  la sostanza, per noi moderni comuni mortali la Villa era un posto tanto affascinante quanto psicologicamente disagevole.
La prima volta che mi resi conto (personalmente) che qualcosa non quadrava nella Villa  fu una notte d'agosto, caldissima come solo a Contrada Fornaci. Eravamo andati a cena dai settentrionali, io e Michele, che da quella pettegola che era aveva stretto amicizia con loro nella sua maniera confusionaria e rumorosa, presentandosi al loro cancello alcuni mesi dopo il loro trasloco, ubriaco e sovreccitato, portando in dono pane fresco, verdure dell'orto e un mazzo di fiori per la signora. Come non cedere alla sua amichevole irruenza? Si erano a loro modo affezionati a lui, ai suoi pettegolezzi, alla sua mite invadenza, alla sua sconclusionata generosità, e lui da parte sua si era mortalmente affezionato al limoncello della signora, che con loro sgomento consumava a litri ogni volta che lo ricevevano.  Erano una coppia di sessantottini in disarmo, un figlio già grande e una figliola adolescente, persone educate, tolleranti e un pò spaesate, affascinati dalla natura perfetta della contrada e dal clima meteorologico ed umano della regione.

Quella sera mangiavamo fuori, un pò distanti dalla casa, sullo spiazzo davanti alla cantina seminterrata che, grazie al soffio d'aria umida e fresca che esalava dall' interno vinoso della stessa, era l'unico luogo vagamente vivibile dell'area, persino nelle ore serali.
Mi spedirono alla Villa a recuperare posate e bicchieri di carta, conoscevo la casa per esservi stato ospite con Michi precedentemente; sostai brevemente in cucina a contemplare il tramonto fiammeggiante dalla grande finestra sopra il lavabo di marmo. Fui sopreso all'udire alcuni passi pesanti nella stanza di sopra, uno studiolo, e un allegro suono di campanellini, prolungato, giocoso. Chiamai i nomi dei ragazzi, che pure sapevo all'esterno, li avevo appena lasciati. Passi e campanelli cessarono di botto. Non particolarmente sorpreso, pensando che qualcuno fosse rientrato dopo di me da un'altra parte, c'erano quattro ingressi alternativi alla Villa, oltre alle portefinestre, tutte aperte per il caldo, me ne tornai alla cantina. Rimasi di sasso a trovarvi, comodamente seduti o intenti a curare le braci del barbecue, tutte le persone che sapevo presenti alla cena, ovvero io e Michele e la famiglia. Mi allarmai subito, temendo la presenza di un ladro che avesse approfittato della nostra festa all'aperto per introdursi non visto, c'è qualcuno in casa dissi al padrone di casa, dobbiamo andare a controllare!
 L'uomo e la moglie si guardarono un pò imbarazzati, e la figliola alzò su di me e su di loro occhi fiammeggianti di un'emozione indecifrabile, paura, recriminazione, non saprei dirlo. Nessuno comunque si alzò per seguirmi alla casa, e l'uomo mi chiese che cosa avessi sentito. Venne fuori che i passi nello studiolo erano una costante da quando si erano trasferiti, fonte inizialmente di litigi e reciproche incomprensioni, essendo associati all'accensione della luce e di un impianto hifi di cui veniva rimproverata la ragazzina, soprattutto da parte del fratello, titolare dello studio stesso. Ora era ormai assodato che questi fenomeni erano del tutto idiosincratici e di origine ignota. Non erano gli unici: assommando tutto ciò che lì avveniva, la situazione dava loro da pensare, sebbene danni gravi a cose o persone non se ne fossero fin'allora registrati. Parlando tutti assieme, concitatamente, raccontarono di oggetti che si spostavano davanti ai loro occhi, forti fischi e campanelli, i passi già citati. La casa era tutta uno scricchiolio, uno schiocco, un battere nei muri e nei mobili, una casa vocale, era il termine che l'uomo aveva usato.Una sera avevano sentito, tutti, distintamente, stando in stanze diverse, tutto l'edificio tremare con un sordo boato. Nessuno si era preoccupato, i Castelli, come già detto, sono zona sismica, ma quando il giorno dopo la signora si era recata al lavoro presso l'ospedale dove era infermiera, aveva quasi litigato con i colleghi che non avevano sentito alcuna scossa. Piccata, aveva telefonato all'Osservatorio Sismico di Frascati, che le aveva confermato che non si era registrato nulla di anomalo la sera precedente.
I fenomeni venivano notati anche da chi, come me, esterno alla famiglia, non ne era in alcun modo al corrente. Il ragazzo mi raccontò che una sera era  in compagnia di un'amica ed avevano visto una grande luce nella sua stanza, come un fulmine globulare. Lei era un persona molto impressionabile, per cui lui non le aveva mai detto nulla dell'infestazione, ed anche in qull'occasione negò di fronte a lei di aver notato alcunchè, dandole dell'isterica. Non avrebbe avuto altrimenti più alcuna speranza di attirarla in casa sua, dove i suoi tolleranti genitori non avevano nulla da obiettare a un pò di sesso giovanile sotto il tetto familiare, e nemmeno a qualche canna o all'occasionale coltivazione di una piantina o due, erano gente così, di sinistra.
Nel ristrutturare la casa, le avevano quasi interamente lasciato l' impianto originale, a loro piaceva così com'era. L'unico intervento un pò fuorilinea da quello che era il suo carattere intriseco di casa solare passiva, parole testuali del capofamiglia, ingegnere presso una grossa azienda elettromeccanica parastatale, era stato di aprire una finestra sul prospetto nord per ricavarne un punto luce per un nuovo bagno. Ebbene, sembrava che quella finestra e quel bagno non avessero pace, il vetro si incrinava fino a spaccarsi in mille pezzi sempre sotto gli occhi di uno di loro; quando infine la finestra aveva smesso di rompersi era toccato alla specchiera, sempre con la stessa modalità, cric cric criiiic!, e lo specchio era irrimediabilmente rovinato, una ragnatele di crepe. Mi condussero eccitati a contemplare l'ultimo exploit degli spiriti nel bagno padronale, una delle poche stanze di misura normale della Villa: l'ennesima lastra da buttare che rifletteva impassibile  un caleidoscopio di immagini del mio viso e dei loro.
Michele rideva della loro eccitazione, massì, che vvoi chessìa, c'è sempre stato, anche da me, si lasciò sfuggire. Lo fissai sconcertato: massì, disse, le luci in mansarda si accendono da sole ciai mai fatto caso? E' il vecchio proprietario...

Eh, Michele... Ed io che ogni volta che le trovavo accese, magari dopo esser stato a Roma a raccogliere gli affitti, mi avvilivo e davo la colpa all'hashish e mi ripromettevo di smettere o almeno di calare, mi dicevo che dovevo piantarla co' sta  macchietta del drugo alla mia età e maledicevo la classica  perdita di memoria a breve termine da abuser!

Non saprei dire quanto era vero e quanto no di quello che mi raccontarono ma era così in carattere con il luogo che se non ci fossero stati fantasmi avrebbero dovuto inventarli. Certo anche loro se vogliamo avevano dato una mano a dare un che di inquieto all'atmosfera del luogo, venerandolo come un reliquia, raccogliendo in una sorta di stanzetta museale vetrinette con i cocci che ritrovavano nella vigna, arrivando ad incorniciare le pagine  ingiallite dal tempo dattiloscritte dal Professore dalle quali si evinceva il meditato percorso filologico che lo aveva portato a battezzare la Villa col nome attuale: pagine poetiche di Salvatore di Giacomo, soprattutto, in cui la parola controra veniva usata nel significato proprio, e definizioni dai Dizionari classici dell'epoca.
  Quanto posso testimoniare io è ciò che sperimentai in prima persona, quando la famiglia, in occasione di una settimana bianca, mi pregò di passare le notti a casa loro, per non lasciarla incustodita e per dare da mangiare a cani e gatti. Una sera, finito il servizio pasti e le mie personali abluzioni, mi ero sistemato beatamente davanti al camino a leggere un libro, in compagnia di Principessa, la loro gatta favorita, una persiana tartarugata  fenomenale cacciatrice di topi e l'unico animale cui fosse consentito  stare in casa. Devo confessare che non ho mai avuto particolare trasporto per i pets, sebbene non nutra alcun pregiudizio nei loro confronti, e non ne ho mai avuto uno che potessi chiamare mio; ma in campagna è giocoforza tenere cani e gatti per ragioni puramente utilitaristiche. Tuttavia la gatta era simpatica, mi teneva compagnia ma senza nessuna invadenza, si lasciava voluttuosamente coccolare senza però imporsi; per essere un gatto, creature non particolarmente intelligenti, era sufficientemente sensibile ed equilibrata.
Quando però a un certo punto mi alzai dalla poltrona per aggiungere un ciocco al fuoco la bestiola, che dormiva sul tappeto ai miei piedi, spalancò gli occhi, fissandomi con le pupille dilatate, si alzò sulle quattro zampe a pelo ritto raddoppiando la sua sagoma minuta e soffiò. Meravigliato le parlai piano piano cercando di calmarla, che c'è Principè, e mi resi conto che non stava guardando me ma un punto dietro di me. In quel momento percepii la pressione di una mano sulla mia spalla,dura, pesante, che mi tirava giù a sedere sulla poltrona e non cessò finchè non mi fui di nuovo accomodato, Paralizzato dalla paura non osai voltarmi ma non smisi di controllare Principessa, che mantenne il suo atteggiamento di difesa e gli occhioni spalancati per qualche minuto e pareva che seguisse qualcosa con lo sguardo. Solo quando, gradualmente, infine sembrò tranquillizzarsi, osai girarmi e gettare uno sguardo nel salone semibuio, e mi alzai, con le gambe che mi tremavano, a ispezionarne i recessi. Nulla.
 Ancora scosso me ne ritornai allora alla mia poltrona ma dalla gemella accanto si levò nel silenzio profondo un distinto scricchiolìo ed il cuscino si gonfiò, come liberato da un peso e a quel rumore la gatta soffiò esplosivamente e fuggì dalla stanza. Non la rividi se non il mattino dopo.
Inutile dire che decisi che per quella sera mi bastava e battei in ritirata nella mia mansarda che, luci o non luci, era senz'altro un posto molto più tranquillo della Villa.

Col tempo la famiglia arrivò ad averne abbastanza della Cosa: la signora era stata vittima di alcune strane cadute, diceva di sentirsi chiamare per nome e come tirare all'indietro per la manica; una volta le avevano dovuto mettere alcuni punti per un brutto taglio sulla nuca. Una amico di famiglia, giardiniere presso la Residenza del Papa a Castelgandolfo e fervente osservante, aveva loro consigliato gli esorcisti del Santuario di Santa Maria di Galloro, professionisti certificati e autorizzati. Un piccolo team composto di padre in paramenti solenni, tre giovani seminaristi come assistenti, tutta l'attrezzatura necessaria, croci d'argento, incensieri,  avevano benedetto con specifiche formule ogni stanza, ogni recesso, ogni pertinenza della Villa, accompagnati da una trepida  padrona di casa che si sarebbe sempre rifiutata di divulgare i particolari più interessanti dell'evento. L'ingegnere, ateo, si era formalmente dissociato dalla questione. Fattostà che, a loro dire, i fenomeni erano cessati, per quanto il luogo abbia tuttavia mantenuto anche dopo, secondo me, il suo clima inquieto, vibrante, come pronto da un momento all'altro a risvegliarsi, a risucchiare giovani energie eteriche per una nuova rappresentazione, a ricominciare la sua petulante manifestazione, in un eterno rincorrersi di reale e immaginario, come per secoli si rincorsero  su questi campi Latini e Volsci, fauni e centauri, prima della storia, prima di Roma, prima di noi e dopo di noi, per sempre.
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Alcuni anni dopo, Michele era appena scomparso, seppi che alla donna era stata diagnosticata una malattia rara, un parkinsonismo atipico  il cui sintomo precoce più caratteristico è proprio la tendenza a cadere all'indietro. Ne sarebbe morta di lì a poco ( la prognosi di questo morbo è di tre cinque anni dalla diagnosi) quando, lei ormai su una sedia a rotelle, la Villa era già passata di mano. Nulla saprei dire oggi degli attuali proprietari, dopo la morte di Michele ho tagliato i ponti con la contrada, troppo addolorato, troppo chiuso nei miei sensi di colpa, troppo preso dalla mia ennesima successiva nuova vita totalmente priva di continuità con le precedenti al punto di renderle irriconoscibili come mie, al punto da doverne scrivere per darne un senso a me stesso.  Spero per loro abbiano nervi saldi, molti soldi, nessuna figlia adolescente in casa, o almeno abbiano avuto il buon senso del palazzinaro burino di vent'anni fa ed abbiano raso completamente al suolo la cara vecchia affascinante impenitente incessante Villaccia.

E chissà se pure questo servirebbe davvero a qualcosa. Forse nemmeno una tabula rasa, con abbondante sale sparso sulle macerie, forse no, non a  Contrada Fornaci.


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Friday, October 18, 2013

Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 2


Ernesto

Da un capo all'altro della contrada, Ovest: Ernesto. Capelli neri e carnagione pallida, lineamenti regolari, anonimi, bassino e smilzo, occhialuto,  l'icona vivente del nerd, mite, sommesso, normale all'apparenza quanto più laterale e non conforme nella sostanza del suo minuscolo essere. Diplomato ISEF, aveva lavorato come insegnante di Educazione Fisica ( così ancora si chiamava la ginnastica all'epoca) nelle scuole medie di Genzano e Velletri per anni. Era sposato con un'insegnante di Lettere, che alla morte del padre aveva ereditato una manciata di ettari di vigna e oliveto ai confini occidentali della contrada, comprensivi di un vecchio ma bellissimo casale. Ernesto, figlio e nipote e pronipote eccetera di una schiatta interminabile di contadini della Valle Latina, Valmontone, Cave, Palestrina, aveva preso una decisione incomprensibile ed aveva mollato il lavoro sicuro con lo Stato per seguire il suo istinto agricolo e si era dedicato interamente alla terra. Dei due  era la moglie che tutte le mattine usciva da sotto il viale di lecci centenari colla loro utilitaria per andare nel mondo. Lui, in piedi prima dell'alba, le aveva preparato la colazione ed era già nei campi, restava nel suo paradiso, eremita volontario, solitudine appena alleviata da Internet e dai contatti elettronici quotidiani coi compagni di Lega Ambiente, impegnato com'era a sorvegliare dall'alto del suo colle  l'ecologia della Contrada, dai piccoli ulteriori abusi edilizi nel mare magnum dei senza licenza, al taglio illegale di essenze protette, agli scarichi non autorizzati, ai cacciatori fuori distanza ed alle discariche improvvisate sui cigli dei fossi. 
Si dava del tu con i sindaci della zona, Velletri, Genzano, Nemi, perché era per loro un incubo, un soggetto enigmatico e pericoloso spinto da motivazioni a loro incomprensibili  che andava blandito con circospezione, tenuto in considerazione, invitato ad ogni convegno, cooptato in ogni comitato o commissione possibile onde tenerlo d'occhio. Primo firmatario di innumerevoli petizioni, presenzialista di banchetti di propaganda, festival politici e puliamomondi, era il campione della legge Bassanini, metri cubi di delibere, determine e regolamenti  comunali che la PA era costretta a fornirgli per legge e che analizzava sera dopo sera pervicacemente, meticolosamente, sempre ostilmente teso a trovare falle legali, bugs burocratici, rischi per la salute e la natura (n.b. che per ragioni ideologiche non possedeva la televisione). Era per le amministrazioni locali circostanti un hooligan ambientale, una mina vagante che poteva in qualunque momento scoppiare e tenere in scacco lottizzazioni, autorizzazioni industriali e artigianali, progetti di sviluppo di qualunque genere, appellandosi ai cento cavilli che l'incredibile legislazione italiana fornisce ai nimby di professione. Ogni protesta lo vedeva in prima fila e teneva duro per anni, contro l'Appia bis, contro l'Inceneritore dei Castelli, contro il raddoppio della Pontina, contro l'autostrada litoranea, contro tutto. Un grandissimo rompicoglioni. 

Geneticamente devoto  al bio, professionalmente combatteva come un leoncino la sua personale battaglia per trasformare la piccola tenuta secondo un modello biodinamico, impresa improba per la dimensione del fondo e per i limiti strutturali di manodopera disponibile ( lui da solo ) e l'asprezza della terra collinare, povera, dilavata, arida. Il limite più grave consisteva nel fatto che fondamentalmente era un contadino, per nulla portato all'allevamento, mentre essenziale alla chiusura del cerchio steineriano è l'apporto di nitrati e fosfati come gentilmente velocemente prodotti, a partire dal materiale vegetale, dagli organismi animali; in parole povere serve merda. Per produrre la quale, anche con l'utilizzo di animali energeticamente efficienti come il pollame, servono spazi ( di cui Ernesto non disponeva) e lavoro ( come sopra), per cui come uno stercorario umano, si arrabattava a raccoglierne in giro, carriole e carriole fumanti nelle fredde mattine d'inverno scaricate nel carrello del cingolato e portate a riposare nel suo cumulo, da Giacinto, da Michele nelle stagioni in cui teneva un vitello, dalla porcilaia dei rumeni, da Antonio l'anziano pastore a San Gennaro, cui d'inverno consentiva il pascolo nel suo fondo. Non alle capre, però, bestie capatosta incorreggibili, capaci di arrampicarsi sugli olivi come scimmie distruggendone la chioma e di rosicchiare le cortecce degli alberi da frutta come castori: Antonio ammetteva a mezza bocca che, preso dall'ira per la loro testardaggine, a lui stesso era capitato di esagerare col bastone e spaccarne irrimediabilmente qualcuna, di quelle teste toste cornute, "sò stupide", si giustificava, "nun capiscono gnente". Ipse dixit, chi ero io per obiettare. Michi comprava regolarmente da lui ricotta e pecorino fatti in casa, senz'altro deliziosi ma personalmente preferivo passare, viste le condizioni igieniche alquanto opinabili del suo "laboratorio", e mantenermi sul consumo dell'occasionale abbacchio o capretto non ancora marcato, macellato abusivamente, la cottura sana tutto, o quasi. 
Il vecchio marpione non  sarebbe riuscito a nemmeno a sopravvivere si fosse attenuto alle mille norme che in Italia imperversano su tutto agricoltura e allevamento compresi, ogni cavillo un pretesto per un balzello, e tra le quali si districava con laboriosa fatica, lui, a malapena in grado di leggere e scrivere. Da italian illegal breeder, invece, viveva benissimo, nella sua bella villetta accanto all'ovile, e come lui un esercito di macellatori in proprio, casari in nero o distillatori fai da te, illegal farmers di cui Michele era fedele cliente come milioni di anarchici cittadini italiani per i quali è quasi un perverso piacere farsi complici del nero economico, tutto fuorchè piegarsi a uno Stato inefficente e sordo, più delinquente di loro, ed infinitamente più avido, una mostruosità feudalborbonica grazie alla quale un animale collettivo di milioni di vampiri , dipendenti statali inutili, politici di carriera, burocrati infingardi, vivono alle spalle di una delle comunità nazionali più operose e creative del mondo, succhiandone via la vita, indebolandone il tessuto sociale fino a stracciarlo. Chissà se finirà mai, se non con la morte dell'organismo parassitato e allora finalmente anche loro moriranno, mai abbastanza male e sempre troppo tardi.

Un sisifo instancabile di  pregiato materiale organico; ma  Ernesto si distingueva anche  per la dedizione con cui studiava e preparava da solo i fitofarmaci alternativi per le sue colture, troppo povero com'era per l'acquisto dei servizi delle aziende produttrici di insetti utili e trappole ai feromoni. Il suo orto, ordinato e rigoglioso come un giardino all'italiana,  era costellato  di barattoli colmi di birra e limacce morte: almeno le povere bestie spiravano contente (le lumache col guscio, raccolte a mano, finivano in pentola con aglio, mentuccia e pomodoro: buonissime!). I suoi ulivi erano decorati come alberi di Natale di bottiglie ahimè di plastica, piene del liquido alchemico proteico  giallastro in cui affogavano le odiate mosche. Rame ed  equiseto per i funghi, macerato d'ortica per gli afidi, un misto dei due per le maledette cocciniglie che subivano anche l'attacco con spazzole di ferro, delicato lucidare tronchi e rami ore ed ore prima, vigoroso spruzzare sapone nero per la fumaggine poi, che coraggio. In primavera, quando l'assalto agli esuberanti pests che affliggevano le sue colture era più disperato, non ci si poteva avvicinare al magazzino dove lavorava i suoi intrugli: l'odore del macerato di ortica è semplicemente indescrivibile ed associato a quello di equiseto diventa straziante. Credo che afidi e ragnetti bianchi scappassero più che altro per la puzza.

Benchè il grosso delle sue entrate lo facesse coll'olio da olive biologiche spremuto a freddo a pietra, ed il vino naturale -che produceva già in tempi non sospetti, oggi è una mania- così buoni da poter essere ogni anno interamente commercializzati in una cerchia fissa di amici e conoscenti affezionati- era tuttavia sempre infatuato di qualche nuovissimo astruso prodotto con cui poter sfondare in un mercato più ampio- non credo ci sperasse veramente ma era fissato: un anno era la composta di corbezzoli, un altro i marroni sciroppati al rhum, un altro ancora il lemon curd biodinamico, si affaccendava come un furetto coi suoi barattoli, le etichette, l'autoclave, senza mai  addivenire ad un risultato commercialmente sensato. Ce n'era sempre uno nuovo, dei suoi prodotti, allo stand di Legambiente della festa dell'Unità e della festa di  Liberazione e della festa di Rinascita, quest'ultima suppongo un unicum di  Genzano, dove credo si vendesse la maggior parte delle copie di quel periodico storico ormai quasi dimenticato: girava anche a casa di Michele che leggeva più volentieri, però, il suo Manifesto.







Sperimentava anche, tuttavia, in un altro campo, ancora più esoterico. Appassionato da sempre di erboristeria, usava per sè e la sua famiglia, compresa una bimba arrivata in quegli anni, di tutte le erbe disponibili nel suo orto e nei suoi campi, ed erano davvero tante. Le sue siepi miste erano  piene di biancospini e sambuchi e caprifogli e spincervini etc, il suo giardino di aromatiche era il più completo che si potesse immaginare, non solo i soliti rosmarino e lavanda e crespolina, ma le angeliche, i levistici, le olmarie, le saponarie,  gli issopi, le melisse, le altee e le millefoglie - che aggiungeva ben sminuzzate al cumulo per accelerarne la maturazione-  un'aiuola interamente riservata all'aloe: un'enciclopedia. Per fortuna c'era la moglie a frenarlo col suo dolce buon senso di professoressa e a portare la piccola dal pediatra regolarmente, fosse stato per lui l'avrebbe curata solo con cataplasmi e decotti e mucillagini. Che ci si poteva aspettare da Ernesto, vegano, animalista, fanatico della terza metrica: per fortuna c'era lei, benedetta donna, a preparare gli hamburger alla bambina e a darle gli antibiotici. Da lui sopportava tutto con pazienza ma sulla figlia non transigeva.
Ma fosse stato solo questo: in effetti negli anni la sua ricerca si era fatta più, come dire, tangenziale,ed aveva virato decisamente in una direzione smart. L'unico vizio che gli si conosceva era sempre stato il fumo, inteso come maria, ed era conosciuto nel circondario come spietato guerrilla gardener. Piantava un pò dappertutto, nei fossi e negli incolti circostanti, tranne che nel suo fondo, naturalmente. Ricordo che un anno un vicino, piccolo imprenditore meccanico, inventore di suo, fratello di un ingegnere della NASA, un altro caso psichiatrico, sicuramente un Asperger, benchè socialmente funzionante- persino Michi lo considerava strano- passando il trattore nel suo noccioleto aveva scoperto quattro rigogliose piantine alte già un metro. Apriti cielo aveva subito chiamato la forza pubblica, con intervento di una pattuglia di annoiati carabinieri e di una volante, alquanto più decisi, che avevano improvvisato un inutile e fastidioso posto di blocco sulla vicinale irritando un pò tutti. Ernesto si era vendicato l'anno dopo, facendogliene trovare una decina, delle belle pianticelle, sparse nella sua proprietà, nascoste ovunque. Era un gioco da ragazzi, penetrare il suo fondo, considerando che Tamburrini viveva e lavorava a Roma e veniva un paio di volte al mese per rilassarsi e per le manutenzioni. Lo spione aveva capito ed aveva estirpato le pianticelle in proprio, astenendosi dall'allertare la PS: una chiamata all'anno per guerrilla gardening sarebbe sembrata eccessiva, a rischio di attirare l'attenzione proprio sul chiamante, magari sulla famiglia, sul figlio studente di psicologia, medium e sensitivo nonchè abilissimo geek- se non hacker. Personaggio imbarazzante, Stefano Tamburrini, fortissimo telepatico sin  da piccolo, cosa che gli aveva all'inzio creato  la nomea di bambino difficile, per come reagiva a volte aggressivamente con persone che lui sentiva- sapeva- coltivare pensieri moti dell'anima di malvagità magari anche  ben nascosta. Parlare con lui era terribilmente stressante, era sempre avanti di un passo o due nella conversazione, ribatteva alle risposte che non eri ancora riuscito a pronunciare, per quanto ormai fosse consapevole della sua diversità e si sforzasse di celare la sua impazienza al non essere seguito, e sopportasse con filosofia la nostra lenta e ottusa normalità

Tutti a Contrada Fornaci, gli strani  della Provincia.

Ma mentre la coltura della  maria era una attività strettamente privata, un segreto di Pulcinella in realtà ma sul quale nessuno e nemmeno lui aveva mai commentato, Ernesto ad un certo punto si era messo a raccogliere e a provare con i suoi amici tutta una serie di vegetali di cui io stesso non avevo mai sentito parlare: certi fiori arancioni, una bordura anche molto bella da vedere, finivano nelle pipe essicati nature o consumati nello yoghurt -autoprodotto- sotto forma di un estratto nero, resinoso; aveva lavorato a lungo non è chiaro con quali risultati sull'estrazione del DMT dalla canna d'india e dalla scagliola, onnipresenti nei fossi della contrada; una volta coll'alambicco della grappa illegale che era una sua specialità aveva preparato l'assenzio colle cime delle molte artemisie che ingentilivano uno dei suoi viali coll'argento del loro bel fogliame, unite agli altri ingredienti di prassi, semi di anice e finocchio, issopo, menta e melissa per il colore,coriandolo etc... liquore di elevatissima gradazione, credo fosse oltre i 60°. Lo provammo da lui anche io e Michele, una memorabile serata a cena  durante la quale bevemmo la sostanza, di un bellissimo verde smeraldo, con tutto il rituale della zolletta di zucchero e dell'acqua gelata, che la rendeva lattignosa, con effetti a dir poco allucinatori, non so se a causa del velenoso thurione o del diabolico contenuto alcoolico dell'amarissimo preparato. Nutro il credo fondato sospetto che lo avesse arricchito col papavero da oppio, che si procurava dai fioristi, che inconsapevolmente usano le belle capsule per le loro composizioni di fiori secchi. Mai più: il mal di testa del giorno dopo fu anch'esso allucinante, siamo stati male per giorni.

Per cui quando mi propose la datura gentilmente declinai; ma ero con lui la volta che quasi soffocò per la nausea dopo aver masticato come da manuale alcune centinaia di semi di ipomea, un pugnetto. Si convertì successivamente all'assunzione per via anale: io trasecolai, come fai? lo incorporo in supposte di glicerina, mi disse. oddio ma quante te ne servono ?? cinque, sei, glissò un pò imbarazzato. 
Tutti gli anni produceva qualche chilo di lactucarium, di cui era entusiasta propugnatore, per l'insonnia, per l'ansia, per il mal di testa, per la tosse secca, l'avrebbe somministrato  anche a sua figlia se la madre non si fosse fieramente opposta. Lo fumava, lo scioglieva nel tè, lo incapsulava in compresse; l'ho consumato anch'io senza riuscirne a farmene convinto, una sostanza blanda a voler essere buoni, nonostante il nome popolare di "oppio di lattuga" prefiguri chissà quali effetti. Lo vende tuttora su Internet, nelle chat degli psiconauti schizzati come lui, pacchettini sottovuoto da cinque e dieci grammi, "garantito biologico", come se l'estratto di lattuga virosa e lattuga serriola raccolte nei prati  potesse essere altrimenti. 




Il  sogno irrealizzato più vicino al suo cuore, però, il progetto che non ha mai smesso di accarezzare, ininterrottamente, attorno al quale era organizzata quasi tutta la sua attività militante che non fosse semplicemente contro, la sua vera ossessione, un'ala intera della sua vasta biblioteca ad esso dedicata, il wallpaper del suo desktop, lo screensaver del suo computer, una religione che condivideva con una manciata fedelissima di eccentrici praticanti, una vecchia professoressa danese, un architetto locale, il libraio del paese, i trekker del CAI- era uno solo: far dichiarare il Bacino del Lago di Nemi  Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Il piccolo agguerrito e composito gruppo aveva preparato una prima documentatissima, dettagliatissima richiesta con un lavorìo durato anni che aveva coinvolto comuni, soprintendenze, università, patrocinatori privati: non era arrivata neanche ad una fase di valutazione, i meccanismi di protezione e tutela di un ambiente troppo antropizzato non erano stati giudicati sufficienti già a livello di Ministero. E tuttavia non si sono ancora arresi, tampinano ancora i sindaci a gli assessori, sfornano ebook e guide self publishing sui sentieri e i piccoli tesori nascosti del cupo vulcano spento, il Tempio di Diana, la Villa di Cesare, il romitorio di San Michele, l'Emissario romano. 
Ultimo parto della loro febbrile immaginazione, in liaison con un pugno di altri pazzi culturalfuriosi,  un Festival del Ramo d'Oro, - nome ispirato alla sanguinosa leggenda del sacerdote schiavo, cui era regalata la libertà all'uccisione del suo predecessore fino alla sua propria morte per mano del suo successore-  la cui ultima edizione a me nota era dedicata nientemeno che a CALIGOLA nella celebrazione del duemillesimo anniversario della sua nascita. 


Solo in Italia. Solo a Contrada Fornaci.


 

Thursday, October 3, 2013




Mappa psicopatologica  e della devianza dell'abitato di Contrada Fornaci 1

E' curioso come in campagna si trovi una concentrazione di eccentrici per kmq MOLTO più alta che in città, nonostante la diversa densità abitativa. Questa era la mia netta impressione i primi anni che abitavo da Michele, ma forse ciò vale solo per Contrada Fornaci, la mia esperienza di campagnoli è limitata ai suoi abitanti. Forse è l'acqua, che dalle condotte di Poggidoro cola nelle ubiquitarie cisterne appena un rigagnolo inquinato di arsenico e colibatteri fecali, l'acquedotto di Velletri uno dei più estesi e bucherellati d'Italia a servire le diecimila case abusive che ne costellano il ridente territorio. Forse l'aria secca di questo costone roccioso, di qualche grado costantemente più calda che a Genzano ( tre km in linea d'aria )  tant'è protetto dai venti settentrionali, arido, nonostante appartenga territorialmente al Comune di Velletri (statisticamente uno dei più piovosi d'Italia, media annuale 1550 mm, data la sua posizione alla confluenza di due catene montuose, i Colli Albani e i Monti Lepini, a due passi dal mare)- tutta l'umidità che risale dalla Pianura Pontina si condensa nella stretta valle velletrana, effetto stau da manuale.
 Ma non a Contrada Fornaci, che pure non deriva il  nome dalle sue condizioni microclimatiche eccezionali che ne fanno un mondo a parte, nascosto alla vista dei passanti sull'Appia Nuova e l'Appia Vecchia come alla meteorologia locale, e pure un buco nero dei segnali radio televisivi e di telefonia mobile causa la sua situazione proprio sotto uno dei più importanti ripetitori dei Castelli Romani e del Pontino settentrionale, e pure sismicamente del tutto immune agli sciami sismici caratteristici dell'area vulcanica dei Castelli! forse a causa del suo fondo di durissima pietra lavica. Contrada Fornaci è probabilmente un toponimo storico, del genere derivato dalle antiche attività che vi si svolgevano. Cocci di ogni genere, manici d'anfora, antefisse sbreccate, laterizi completi di bolli , decorazioni fittili amputate di quasi ogni ornamentazione, scarti delle lavorazioni di secoli, riaffiorano ad ogni sarchiatura di vigna, incessantemente, come il ribollire di un soffione sottomarino. Una tozza struttura in opus incerto torreggia sulla contrada, una cisterna? Le vigne sono punteggiate qua e là dai grossi basoli grigi della strada romana che i contadini genzanesi della riforma agraria subito dopo la guerra avevano ricomposto, in parte per orgoglio della loro ascendenza,   in parte per discendere più facilmente ai Landi e ai Colli di Cicerone e a Marcavallo e ai Muti ai loro appezzamenti. Un piccolo pezzo è ancora lì, ancora visibile, a dare il nome all'unica strada della contrada, Appia Antica, basolato e crepidine di tufo a impreziosire gli ingressi delle  ville sontuose al sommo capo del suo percorso all'incrocio con la SS 7.
   

  Forse non era  la vera Appia Antica, ma chissà quale strada di servizio, in un'area densamente abitata anche allora, tra il Palazzo degli Antonini, appena oltre il colle di Montecagnoletto, l'anfiteatro di Commodo di Gladiatoriana memoria a cinquecento metri dalla Contrada, a Nord; e a  Sud  gli imponenti ruderi del Castello di san Gennaro, villa agricola tardo romana divenuta poi una delle fortezze chiave del sistema difensivo della Valle Latina, contese per secoli tra gli Annibaldi e i Savelli e i Colonna e tutta quella marmaglia di rissosi e sanguinari nobilastri romani.
Fantasmi si insediano più comodamente in queste case che in quelle di ogni altra zona io abbia conosciuto: una succursale afosa della Scozia. Spiritelli ne infestano i prati di notte; fuochi fatui che farebbero la gioia degli ufologi e di Mistero rivaleggiano con le lucciole, fossi profondi come canyon fitti di querce e lecci secolari, tane d'istrici e di volpi, faine e donnole che ne devastano i pollai, saettoni e colubri giallo verdi grossi come un braccio e lunghi due metri che si accoppiano nel sole di giugno sui viottoli arsi, intessendosi in trecce  pulsanti di due tre quattro serpenti  soffiando come gatti, urla agghiaccianti di civette e barbagianni che squarciano il buio estate e inverno: tutto ciò non mi sembra basti a giustificare l'endemica follia e la tendenza alla devianza degli abitanti, indigeni e no, di questa landa.
Una mappa:

Giacinto

a Est sud est la casa di Giacinto, storico spacciatore di Genzano, biondo, baffi e barba, occhiacci slavi, un Galata burino e arruffato concentrato in uno scarso metro e sessanta di altezza. Fuori dell'imponente cancello automatico, la cui apertura e chiusura è udibile a chilometri di distanza, nè nome nè cognome ma una targa che è tutto un programma: Frà Cazzo da Velletri. Da piccolo spacciatore del muretto, Giaci era divenuto col tempo, insieme al fratello, un grosso movimentatore di roba. Aveva costruito una villa, abusiva, di gusto sorprendente, alle Fornaci, perchè zona vicino al paese ma sufficientemente discreta, e oltre alle sue attività istituzionali vi allevava cani di razza, mastini napoletani e cani corsi e piccoli coton de tulear, batuffoli bianchi che scorrazzavano in tutta la contrada. Come ogni uomo di campagna, sapeva che per una guardia efficace ad un cane imponente, il braccio, ne va affiancato uno piccolo e nervoso, la mente. Alla villa erano associate le stalle, dove non mancava mai una mucca col vitello, e i cavalli che erano la passione del fratello. Capre e galline, vigna , olivi e orto completavano l'insediamento, il tutto governato da Carlino, il padre settantenne, che ne veniva piedi da Genzano vecchia tutti i giorni, l'antico bracciante che si beava dei possedimenti agricoli del figlio. Michele, quando abolirono la leva obbligatoria, mi fece prendere in un sol colpo cittadinanza e patente grazie ad un suo inquilino di Via Nazionale, alto funzionario alla Questura di Roma, e mi (si) regalò un piccolo pick up Peugeot, e a volte mi capitava di dare al vecchietto un passaggio di ritorno a Genzano. Ma quei due chilometri erano un'impresa:  in confronto a Carlino persino Michele olezzava Chanel n 5, e l'arzillo vecchietto inoltre era ubriaco fradicio già dalle nove di mattina e blaterava incessantemente in un incomprensibile dialetto tutto il tempo.






Uomo che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, Giacinto coltiva da sempre passioni snob, come lo sci d'acqua praticato sulle dolci acque del Lago di Castegandolfo o le 500 (quelle d'epoca) da corsa, con cui gareggiava nei circuiti amatoriali, il rombo tonante dei motori che eccheggiava per tutta la contrada nei giorni del tuning dei piccoli mostri meccanici, gli  enormi motori che traboccavano dal cofano posteriore e le gomme extralarge da gokart. . Il suo mestiere e i suoi hobbies lo mettevano sorpendentemente a contatto con ogni genere di celebrità o, più banalmente, con gli strati più elevati della popolazione limitrofa. Da lui erano passati Timothy Leary, Vasco, Troisi (che stranamente bucava uno spettacolo su due quando era in zona), semisvenuti sui meravigliosi Qom di seta che adornavano il suo bel salone rustico a tre livelli, poichè quella era la sua copertura, grazie alla moglie trasfuga angloiraniana, "commerciante di tappeti e pietre preziose", così diceva a chi non lo conosceva. Su quei bei tappeti semisvenivamo anche io e Michele qualche volta.
Due figlioli, marmocchietti biondi cogli occhi azzurri come il papà e la mamma, donna evidentemente di schiatta più grecoalessandrina che asiatica, imperversavano tutta l'estate a piedi nudi nei campi, fino a noi, Tiziano abbronzato, solare, spalle larghe,  apollineo, e Valentino, d'aspetto pallido malaticcio e cupo, cane omosessuale ammazzapecore sin da bambino. Giacinto era socio e sodale di Michele per ovvi motivi, ma li legava un sentimento fortemente ambivalente, come capita spesso tra gangster. I loro traffici erano un enigma persino per me che lì abitavo. Per due o tre volte, in quegli anni, ricordo passaggi di elicotteri sulla pineta che si chiudevano col lancio di fagotti e loro successivo recupero da parte dei due ragazzi, alcune ore dopo, ovvia cautela. Clienti di Giacinto, ragazzotti alquanto bulleschi a bordo di motorini smarmittati, frequentavano a tratti la villa dove stava Michele, che a volte ne sembrava spaventato, anche se con me non lo ammise mai. La cosa finì quando da lui si installarono i primi (benedetti !) rumeni.
Devo dire, a onor suo, che mi ha sempre tenuto a distanza dalla zona più oscura della sua vita e dei suoi affari, con una delicatezza che non mancavo di apprezzare. Per un'estate soggiornarono da lui due fratelli napoletani, l'uno, il più giovane, muratore rifinito, apparentemente con lo scopo di effettuare lavori in villa e cercarne nella zona. In realtà, scoprii più tardi, deputato a tenere d'occhio il più anziano, un verace, alto e bruno, occhi verdi sognanti ed animo romantico e sentimentale, bellissima voce, donne e figli che telefonavano ad ogni ora, una malinconia indicibile nello sguardo, apparentemente il  manovale svogliato del fratello, con cui era evidente lo scambio di correnti di tensione reciproca, disapprovazione, delusione, rivendicazioni antiche. Non si allontanavano quasi mai dalle ville, benchè motorizzati del camioncino di Ciro, il più piccolo. Mangiavamo insieme  e insieme bevevamo whisky on the rocks, parlando della vita e dell'amore nelle sere estive, al fresco sotto il pergolato, lavoravamo insieme nei campi ed alle case, li aiutavo volentieri, la loro compagnia era piacevole come solo con i napoletani  può essere,  soprattutto quella di Francesco, il più grande, uomo profondo, sofisticato, poetico, un principe quasi analfabeta ma un principe, anche questo così tipico di quella città. Alla fine della stagione passò a salutarmi, vado via, grazie di tutto, piacere di averti conosciuto. Ma ci vediamo ancora, magari ti vengo a trovare, gli feci, un pò sorpreso. Non credo, mi disse, io vado là. Indicava le luci soffuse nel crepuscolo del Supercarcere di Velletri, isolate nella pianura circostante, un lago di buio tutt'intorno. Ero ammutolito, non sapevo che dire. Sarà lunga, continuò, sai, omicidio plurimo e atreccose...Ero certo più imbarazzato io di  lui, che doveva essere ormai a suo agio nella posizione del camorrista latitante. Sono stanco di fuggire, disse infine. Mi voglio fermare.

Quell'accidenti di Michele.


Nel complesso Giacinto non era malvisto in Contrada:  era un vicino onesto, sempre disponibile a contribuire ai lavori ed alle manutenzioni necessarie della zona, giocoforza a carico dei proprietari delle case e dei fondi, data la cronica latitanza del Comune, della provincia, dei fornitori di utilities. Non era inconsueto vederlo riempire le buche di materiale di risulta, o riparare col bitume l'Appia Antica. Provvedemmo insieme all'intervento più importante per la vita della contrada, raccolti attorno ai due capofila, lui e Michele: stendere un tubo per l'acqua lungo tutta la vicinale per poter finalmente attingere al Simbrivio e liberarci della cronica precarietà idrica velletrana. Last but not least la sua influenza rendeva l'area straordinariamente sicura, il tasso di furti nelle ville era irrisorio, il vandalismo era del tutto sconosciuto nonostante l'isolamento: tutto voleva Giacinto fuorchè attirare l'attenzione delle forze dell'ordine sul suo territorio, che era perciò il più tranquillo di tutta Velletri.

  Dopo trent'anni di onorata carriera tutta al disotto dei radar della giustizia, Giacinto aveva subìto l'onta della sua prima condanna, a causa di cinquanta kili di hashish trovati sepolti nel terreno di un confinante e a lui ricondotti da una paziente indagine fatta di appostamenti e intercettazioni ambientali che avevano messo in subbuglio un vicinato costituito di famiglie in casette  isolate, telefonate allarmate che segnalavano  una notte si e una no le targhe delle auto dei poliziotti in incognito ai loro colleghi del territorio. Michele aveva quindi organizzato il sostegno alla temporanea "vedova" e ai bimbi, visto che l'evento del tutto inaspettato aveva colto la famigliola impreparata e priva di contanti. I contradaioli avevano accolto l'iniziativa con un certo fondato scetticismo, e come spesso accade, il bene fatto da Michi non aveva suscitato in Giacinto tutta la gratitudine che avrebbe meritato e avrebbe invece di lì in poi alimentato un sordo rancore nell'Unno.
La cui successiva disavventura giudiziaria non aveva, in effetti, suscitato più alcuna sorpesa o simpatia nel regno del Principe delle Pettegole. Quando il fratello era stato fermato alla fonda davanti a Civitavecchia a bordo del suo yacht a vela carico di coca, e lui l'aveva seguito nel solito Supercarcere di Velletri, ancora, ormai una seconda casa, nessuno si era mosso. La moglie aveva ovviato vendendo le stalle riattate a casolare a due vecchietti romani e l'unico spunto di blanda perplessità l'aveva suscitato  la precoce ricomparsa in contrada, da lì a pochi anni, del Tartaro, ormai incanutito e sdentato. Il pensiero comune era che avesse spifferato su qualche complice, ottenendo benefici.
Siccome il lupo perde il pelo, eccetera, il suo ritorno era stato caratterizzato da una ripresa del traffico incongruo sulla vicinale, con viandanti smarriti, nuovi clienti, che suonavano fino alle due di notte  anche da noi cercando Giacinto, "checc'è Ggiacindo?" , niente a che vedere con gli antichi raffinati frequentatori della bella villa ma d'altronde ricostruire una carriera comporta un inevitabile downgrade, e la necessità finanziariamente comprensibile di riprendere da prodotti ( e clientela) più casarecci.

L'ultima volta che lo incontrai, Giacinto commentò la scomparsa di Michele " Hai visto Michele sì? Chissaccheffarà mò, all'Inferno!" La sua sghignazzata viscosa,  gengive scoperte nel bosco di peli biancobiondi macchiati di nicotina, mentre si allontanava sgommando pietruzze dappertutto colle gomme rinforzate del suo SUV, è il ricordo più nitido che mi rimane di lui.


Thursday, September 12, 2013

settembre


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Allineo ordinatamente le capsule di gabapentin sulla scrivania segnata del mio studio nella mansarda che è la mia casa in questi anni; sembrano una fila di grasse processionarie arancioni. Quattro : è quanto mi concederò oggi, il mio orange crush è dispettoso, tolleranza quasi immediata, dipendenza impossibile poichè la dose che sballa ha un tableau individuale che non può essere mutato e a farselo più di una volta o due a settimana l'effetto diventa terapeutico, il valore ricreativo si annulla. Ma non è dannoso, si elimina attraverso i reni e non danneggia il fegato, non esiste l'overdose e al massimo tratta l'ansia diffusa. E' un'allegra sostanza da compagnia, predispone l'animo alla tolleranza, rende tutto divertente e rinforza l'effetto delle altre droghe sociali. Seleziono attentamente, alla mia età e con Michele sempre più perso nella coca.  Con un paio di canne e qualche birra coi ragazzi rumeni, i piccoli vermetti they'll make my day. Dalla villa quella disabitata il panorama sembra non finire mai in largo e in lungo dalla periferia sud  di Roma al Monte Circeo e più in là al Monte Giove sopra Terracina, una manciata di scogli azzurri le Pontine, e vibra di calore e di cicale nella tarda mattinata ancora estiva: un miracolo una città giardino estesa per centinaia di chilometri, case e parchi di pini e cipressi olivi e vigne e colline verdeggianti e campi arati all'orizzonte e una striscia di mare celestrino. Un miracolo.
Oggi è l'undici settembre: il 1973 è un passato lontano qualche centinaio d'anni.  Non sono credente ma prego.





september


Aligned in an orderly row on my ancient desk, four gabapentin capsules; they look like a train of fat  smooth orange processionaries. Four's the number, that I'll treat myself  today, my orange crush is a naughty boy , tolerance is immediate, dependence impossible since the recreational dose can go only as far as an individually specific tableau; you get more or more  than once a week and it stops being dope and turns into a drug. At least is as harmless as a drug can be, it's kidney processed and does not affect the liver,  there are no overdose cases known, at the very worst you'll find your anxiety disorders medicated. It's a very companionable drug, opens people to friendliness, makes everything fun and strenghtens the sociable effects in other stuff. At my age and with Michele all but lost in cocaine, I must keep on the safe side. Along with a joint or two and a coupla beers drunk in the good company of the rumanian boys, the four dear little worms they'll make my day.
The view from the uninhabited villa, the one I'm staying in, spreads unendingly under my feet to and fro, from Rome's southernmost suburbs to  Mount Circeo and over, to Terracina's Mount Giove, Pontine Islands just a handful of blue pebbles in the distance. Everything hums and trembles with warmth and cicadas all along the still summery morning: a miracle, a hundreds square kilometres garden city, houses and pines and cypress woods and olive orchards and vines and green hills and brown fields and a light indigo sea ribbon at the farthest horizon. A miracle.
Today is september eleventh: 1973 is a past several centuries done gone. I'm not religious, but I'm silently saying a prayer.