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Monday, August 15, 2011

Il significato che aveva per me la casa di San Saba non può essere adeguatamente compreso se non ripercorrendo gli anni spaventosi che mi portarono a lei e che lì ho poi trascorso. La dolcezza e la malinconia che mi riempie il cuore a ricordare il dolore e lo strazio attraverso cui sono passato, le immagini i suoni e gli odori di quei momenti fulgidi nella memoria più di cento mille momenti felici, è più misteriosa  ed inesprimibile e potente di qualunque memoria di gioia. La casa di San Saba ed il quartiere nei miei ricordi vibrano di una luce di sofferenza e languore meravigliosa un eterno giorno di sole d'inverno a Roma freddo e brillante e commovente e poi un eterno crepuscolo rosso sangue. La luce del cielo italiano ha per me una qualità di gioia e di dolore fusi insieme che mi trafigge iconizzata  nella mia mente dall'atmosfera dei tramonti nel piccolo giardino di Piazza Bernini e dal senso della mia totale solitudine tra le persone che la riempivano sempre a quell'ora anche in inverno bastava non piovesse chiaccheravano giocavano a carte, si conoscevano tutti come dappertutto in Italia. Era lo spettacolo per me affascinante di una quotidiana normalità che non mi sarebbe mai più appartenuta e da cui allora ero così assolutamente escluso che vi assistevo come alle immagini di un film come dal finestrino di un treno. Pure mi riempiva di calore che ancora sulla Terra vi fosse qualcuno che potesse goderne, era una fiammella di speranza in un mondo buio come può esserlo solo per un adolescente solo. Da solo assistevo alla Messa nell'intima delicatissima Chiesa medievale e restavo solo, forse a pregare, per ore, il cuore colmo fino all'orlo di tutte le lacrime che non potevo piangere e premevano dolorosamente dietro gli occhi. Alle volte qualche vecchio monaco mi fissava più a lungo come a volermi parlare chiedere di quel sentimento che mi leggeva in faccia e  che mi affrettavo allora a portare da un'altra parte tanto lo vivevo ormai come dozzinale, trito e quasi vergognoso.


Avevamo avuto la casa grazie a Max, tìo Max, mi amigo. Prima di San Saba l'esilio era stato una serie di sistemazioni precarie di cui tuttavia era giusto essere grati a chi ce le rendeva accessibili. Mio padre non aveva mezzi non aveva forza non aveva vita rimasta dentro era un guscio vuoto d'uomo. L'ultimo suo sforzo era stato portarmi fuori dall'America Latina e credo che ritenesse di aver assolto definitivamente con ciò ai suoi doveri genitoriali nei miei riguardi. 

Per un periodo fummo alloggiati insieme ad altri rifugiati nei locali per gli ospiti della Scuola della CGIL ad Ariccia, un grande complesso adibito a sede di congressi, convegni e seminari, completamente attrezzato con mense e camere e addirittura attrezzature sportive. Oggi è difficile immaginare quello che poteva essere l'organizzazione di un grande sindacato o partito di allora, tanto più se era il Partito Comunista, e quello italiano era il più forte dell'Europa Occidentale. Compagne prosperose e affettuose. con mani grosse da contadine, cucinavano per noi , pulivano le nostre stanze e lavavano la nostra biancheria. Ero il loro cocco "Poverino", "Poro regazzino" dicevano, conoscevano la mia triste storia di orfano esule, mi riempivano di dolcetti, pizzette caramelle vestiti smessi dei loro figlioli- possedevamo appena arrivati quello che portavamo addosso o poco più- mi dedicavano tutte le soffici attenzioni femminili possibili, sebbene fossi o forse proprio perchè ero totalmente incapace di reagirvi. Non conoscevamo personalmente nessuno dei compagni di esilio che stavano lì quei giorni, ammutoliti e annichiliti come noi dallo shock.

In seguito il Sindaco di Genzano, Gino Cesaroni, comunista ex partigiano vero, deputato, un boss della politica locale da trent'anni, un uomo duro di un'altra epoca e tuttavia molto sensibile alle priorità del partito- stante la nostra situazione di totale indigenza  ci sistemò indefinitamente a pensione in un alberghetto decaduto del Centro Storico- Belvedere, si chiamava, dalla nostra camera una vista mozzafiato sull'orrido del Lago di Nemi, un panorama selvaggio popolato di ectoplasmi arcaici di indefinibili creature mitologiche. Ricordo l'angoscia di certe mattine d'inverno quando una bruma grigia saliva sinistramente dal lago e riempiva il cratere vulcanico di fantasmi o lo spettacolo indimenticabile di un arcobaleno che come una bandiera sventolò un giorno di pioggia da una costa all'altra. Era spaventoso e bellissimo insieme e la mia psiche già abbastanza sensibilizzata dall'esilio e dalla pubertà ne era sopraffatta. Non potevo parlarne con nessuno, tuttavia, non conoscevo la lingua non avevo amici o compatrioti nemmeno all'albergo. Mio padre beveva  tutto il tempo seduto nell'unica poltroncina della stanza senza guardarmi, non si lavava e non si faceva la barba per giorni, spendeva in vino locale a basso prezzo tutto il piccolo sussidio che ci dava il Comune e passavano settimane senza che mi parlasse; scendevo da solo in sala da pranzo per i pasti, uscivo da solo a girovagare per le strade sconosciute del paese italiano, lavavo e stendevo  e piegavo con cura perchè non lo potevo stirare il nostro miserrimo corredo.



 All'inizio avevo accettato il suo silenzio con la cieca fiducia dei bambini negli adulti importanti, pensando che poi si sarebbe sistemato tutto, tutto sarebbe tornato come prima, la tempesta incomprensibile che ci aveva travolto sarebbe finita. Poi cominciai ad inquietarmi, a tentare di chiedergli cosa fosse successo veramente a Santiago quando aveva già spedito me e mia madre in Argentina, affrontando l'argomento alla lontana, con la goffa delicatezza di cui i miei anni erano capaci. Mentre uscivo lentamente dal peggio della mia personale PTSD mi affiorò infine e gli posi un giorno con un coraggio che non credevo di avere, coraggio della disperazione, la domanda principe, cosa fosse accaduto a mia sorella, dov'era finita viva o morta che fosse o che...

Lui si alzò e del tutto inaspettatamente mi tirò la bottiglia che aveva davanti e poi il bicchiere e poi girò attorno al tavolo e mi raggiunse, il viso contorto in un'espressione mostruosa di cui non lo avrei creduto capace e cominciò a picchiarmi prima schiaffi a mani aperte e poi pugni nel più totale silenzio solo il suo respiro affannoso finchè ripresomi dalla sorpresa colla naturale agilità dei miei dodici anni mi lanciai fuori dalla porta giù per le scale e scappai in strada. Era la prima e fu l'ultima e l'unica volta che mio padre alzò la mano su di me, uno scoppio di emotività terribile che non si sarebbe mai più ripetuto, un risveglio brutale ma isolato dall'apatia e dall'abulia in cui sarebbe vissuto di lì in poi. Quando morì anagraficamente era in realtà già morto da anni.  

Wednesday, August 3, 2011

Nel 1994 lavoravo ormai da quasi otto anni per la Banda Reggiani, arricchita sempre da qualche figlio o nipote nuovo che si intrufolava nella gestione. Purchè firmasse assegni a vuoto era ben accetto: fui io stesso testimone di come alla festa del suo diciottesimo compleanno al Fantasie di Trastevere Ruggero dopo la torta ed i brindisi  ed i coretti fosse portato in un angolo tranquillo dal padre. Lì, sotto la vigile sorveglianza sua e del fido e viscido fattorino nano Antonucci : settant’anni e trecento milioni di assegni a vuoto sul groppone, molestatore di sguattere di cucina a centinaia ai bei tempi del CAF, un uomo una piovra, una fedeltà reciproca con lo Squalo incrollabile- Ruggero fu messo a compilare una decina di blocchetti; ora sei grande, solo la firma, grazie. Era passato come una meteora un cugino Porcacchia, defilatosi quando il padre, pilota di linea in pensione, aveva gettato nelle fauci della Bestia Marina di Ostia Antica una bella fetta dei frutti accuratamente coltivati della sua liquidazione.


 Ero stremato e nauseato fisicamente ed esistenzialmente dal lavoro e dalle droghe. Un giorno dalla mia ragazza svenni; lei chiese aiuto a tutti i presenti del palazzo senza che nessuno riuscisse a farmi riprendere i sensi. Giacevo, mi raccontarono, leggermente irrigidito e mi tremavano le gambe e le palpebre ed avevo la bocca chiusa e i denti così serrati che non riuscirono ad infilarci la congerie di preparati che tutti avevano contribuito ad inventarsi, dall’acqua e zucchero al tredici erbe a 45° di Michele. Alla fine qualcuno con un briciolo di cervello chiamò il 118  e mi portarono al Pronto Soccorso del Policlinico. Nel sangue e nelle urine mi trovarono un po’ di tutto; tuttavia il medico che mi esaminò ci passò sopra poiché nulla era nella quantità sufficiente a provocare quell’effetto. Mi mandarono a consulenza uno psichiatra che diagnosticò una crisi isterica e mi prescrisse  benzodiazepine senza potersi immaginare, probabilmente, la quantità che già ne consumavo. Il medico del Pronto Soccorso mi prese da parte prima di dimettermi e mi dissuase dal seguire la prescrizione. Mi consigliò caldamente, invece, di smettere di abusare, di nutrirmi più adeguatamente e di riposare di più. Mi disse che quando ero arrivato avevo la pressione così bassa che le vene erano collassate e mi aveva dovuto infilare un catetere alla giugulare (l’avevo notato con terrore). Avevo livelli di ammonio nel sangue che solo un epatitico e le transaminasi di un alcolista. Bere e drogarsi continuativamente porta a trascurare il cibo vero ed ero anemico come una gravida al nono mese ed avevo gli elettroliti scombinati in un modo che nemmeno un malato renale. Mi chiese che tipo di morte preferissi, se  un infarto, una cirrosi o la rabdomiolisi. Mi fece notare il pallore delle mie labbra e delle palpebre, le unghie deboli e quasi piatte, mi chiese se urinavo spesso sangue, (eh, insomma..) se mi addormentavo spesso con la sigaretta in mano(oddio, un paio di bruciature sul petto..), mi chiese se perdevo capelli ( i miei meravigliosi capelli neri, e lucidi, oddio, un po’..)
Uscii dall’Umberto I intensamente depresso ed anche un po’ paranoico,( la coca..) incerto se rientrare e prendere a pugni il dottore o prendere a schiaffi me stesso. La ragazza mi aspettava e non volle accompagnarmi a casa a nessun costo; avrei dormito da lei- lo sognava da sempre, sesso si dormire mai-  non sarei andato né a lavorare né da nessun’altra parte. Finimmo per cenare a cinese e canne, Michele con noi da quella pettegola che è sempre stato, mi sfogai un poco, ero angosciato che il mio stato fisico e psichico non mi consentisse più di lavorare, angosciato dalla consapevolezza di quanto fosse difficile uscire dal tipo di vita che facevo, sostanze in primis. Michele sentenziò che dovevo cambiare completamente ambiente se volevo davvero smettere; bella roba era il mestiere con cui mi guadagnavo il pane. Con un’alzata di spalle sbuffò “ Affitta quella bomboniera a San Saba,  non ci stai mai, ho una fila di monsignori ed onorevoli che ti ci pagheresti uno stipendio con una bellezza simile sul Piccolo Aventino, e  poi ti regalo una stanza qua finchè non starai meglio e poi Dio provvede.” Michele ci prendeva col mercato immobiliare come con quello dell’arte, era lì che consolidava i suoi miliardi, e ci alimentava d'altro canto la sua rete di insospettabili quanto misteriose conoscenze. Il suo attico alla Minerva con vista sul Pantheon, ad esempio,  fu per anni affittato a Luca di Montezemolo ad una cifra del tutto simbolica. Lo incontrai una volta alla Tazza d'Oro insieme alla meravigliosa dolcissima Edvige un giorno che Michele mi aveva chiesto di accompagnarlo a Roma per fargli firmare il rinnovo del contratto. 
La casa. Mi era costata il sangue di mio padre quella casa e poi  non mi sarei mai lontanamente immaginato che uno potesse legalmente disporre della sua casa popolare a quel modo. Michele rise fino alle lacrime alla parola legalmente. " ...legalmente...legalmente... cretino!" Era la sua interiezione preferita con noi ragazzi mai ad una signora era sempre gentile e un po' sulle spine con le donne “E poi  la tua empresa chilena  va così bene..ti ci paghi i tuoi vizi, CRETINO!"